di Marco Guidi
Scrive direttamente Panczuk queste righe che riporto dal suo sito web:
Il Karczeb è uno dei dialetti parlati nell’est della Polonia, che è un misto di polacco e bielorusso. Le persone fortemente attaccate al terreno che avevano coltivato per generazioni erano chiamate “Karczebs”. Con le loro mani nude, i Karczeb hanno disboscato le foreste per coltivare. La parola Karczeb è stata usata anche per descrivere ciò che rimane dopo che un albero è stato abbattuto: un tronco con radici, che rimane conficcato nel terreno. Questo valeva anche per le persone: non era facile per le autorità sradicarle dalla loro terra, anche ai tempi dello stalinismo. Il prezzo che hanno pagato per il loro attaccamento alla loro terra era spesso la loro libertà o la stessa vita. Dopo la morte, frettolosamente vicino ai loro terreni agricoli, uno stesso Karczeb diveniva terreno, per poi essere coltivato dai suoi discendenti.
Nell’osservazione, anche approfondita, delle immagini fotografiche, c’è la convinzione, sia che si tratti di un supporto digitale a monitor, sia di stampe tradizionali o in forma di libro, che il senso adibito alla fruizione sia in pratica, esclusivamente la vista, legata poi alla visione del ”dato” raffigurato in tempo reale. Al di là che, e non è solo una mia convinzione, ma penso sia una tesi sostenuta da molti, le fotografie contengano molteplici strati temporali e sono il frutto di un trascorrere del tempo che è molto più ampio, dilatato rispetto a quello di posa e in modo direttamente proporzionale alla durata e alla portata della loro progettazione, occorre aggiungere la multisensorialità della fruizione e della comprensione. Le fotografie non si guardano solamente, ma si annusano, si toccano, si sentono e si assaporano, mediante (e qui ci potrebbe essere un azzardato quanto forse inusuale richiamo al concetto di “Art Moyen” espresso da Pier Bordieau) una connessione intima con la nostra memoria psicologica, come se, escludendo l’oggettività che per certi versi non ha molto a che fare con la fotografia, questa andasse degustata come un buon vino, cercandone, tenendo conto dei suggerimenti, gli aspetti intrisi nella memoria che possano poi veramente offrire una percezione completa o quasi, che svincola, e magari è un bene, persino dall’idea e dall’intenzione dell’autore.
In queste immagini, qui in estrema sintesi, prima ancora di comprendere il tema centrale e la questione quasi antropologica raccontata mediante un’operazione di teatro fotografico, la c’è il profumo della terra e l’inebriante atmosfera della nebbia, l’odore pungente del letame e quello secco delle pelli lavorate, l’aroma del legno, l’aria frizzante dell’inverno e quella floreale della primavera , il ruvido contatto con la pelle di una carezza consolatoria a chi qui ha trascorso l’intera esistenza ed è impossibile da sradicare, l’odore dell’alcol per ammazzare difficoltà e tristezza, il fruscio delle fronde degli alberi, il fascino di tradizioni sconosciute e icone religiose o popolari.
Panczuk ha inscenato e organizzato, tramite anche il suo bianco e nero caldo, una degustazione del ritratto ambientato.
Allora nelle fotografie di Panczuk della serie Karczeby, poi divenuta un meraviglioso e pregevole libro fotografico, è come se, grazie alla disposizione dei piani, una fusione tra linee rette e curve tendenti sia alla verticalità che all’orrizzontalità e alla creazione di un griglia visiva nata grazie alla sapiente mescolanza di diverse profondità di campo, ci fosse un caldo abbraccio tra la semantica di ogni elemento che da il via e delinea una sorta di “Brain Storming” di tutti i significati connessi agli indici.
E’la teatralità però ciò che salta più all’occhio e chiama poi tutti gli altri sensi in un pattern emotivo e coinvolgente, nell’apprendere prima a livello inevitabilmente didascalico e poi concettuale il senso della sceneggiatura. La profonda connessione di questa gente con la terra viene intesa e raffigurata mediante un’incarnazione, o meglio una completa fusione con l’ambiente, con la materia, volta a costituire una completa visione nell’intendere il “Karczebs”, ovvero una triplice concezione temporale, costituita da un prima, un durante e un poi. I soggetti sono come la leggendaria fenice che prima muore sulle sue ceneri, e da lì risorge, con una fratellanza estrema con la terra.
Panczuk non freme per quell’urgenza “Narrativa” spesso considerata velleitaria in determinati ambiti, ma, altresì si concentra nel suggerire metafore quasi corporali al fine dell’ interpretazione di un’identità forte. Propone una serie in grado di porre degli interrogativi avendo già come base delle certezze. Perchè immedesimandoci in quella realtà e situazione, potremmo scoprire che , a parità di condizioni, è come se fosse la nostra.
Infatti, un corretto ed equilibrato scambio di interrogativi che vengono risolti tramite la profondità di campo che connette tutti gli elementi resi contingenti nell’insieme per quella percezione multisensoriale di cui sopra, con delicatezza, crea una sorta di soglia che riesce benissimo a traslare nella nostra realtà quello squisito ambito rurale.
Gli elementi , pelli, oggetti, animali, vengono consegnati agli attori, che evidentemente sono a loro volta i superstiti di un modo di vivere, come il simbolo, l’iconografia di un sistema di attribuzione identitario che equivale ad una costituzione, il manifesto di usi e consuetudini.
Emblematica la sovrapposizione o addirittura il passaggio di consegne con gli alberi.
Proprio il tema degli alberi ricorre spesso nelle fotografie di questa serie, alberi spesso dietro ai soggetti, leggermente fuori fuoco in sfondo, sia a richiamare un concetto ambiguo quanto straniante di nuove anatomie, strutture eclettiche e complesse. Il sottolineare, tramite un elemento di tradizione locale, la radicale appartenenza, l’impossibilità di strappare, seppur da una volontà e da una causa di forza maggiore, un’idea dalla sua certezza. L’uomo dalla sua Terra.
Questo, tra gli altri, è il significato forte e denso di poesia e pathos che ho trovato in questo lavoro.