CESARE RICCI

ANTOLOGIA

Selezione di fotografie di Cesare Ricci

di Marco Guidi

L’uomo, tramite usi e consuetudini, ha sempre cercato di crearsi delle regole quasi autopunitive, cogenti, che spesso ne condizionano e ne arrugginiscono la natura, il benessere psicofisico e la sensibilità.

Una di queste è il tempo, e tutte le viziosità proverbiali che ne circolano attorno. Il tempo non tanto naturale, quello che col suo passare fa sbocciare fiori o seccare le foglie, ma quello della fretta e della frenesia, dei ticchettii e degli orari, delle settimane che si ripetono, senza che mai si riesca ad assaporare quel gusto di calma, di vibrazioni positive, di vera sincronia col tempo naturale, inteso anche come consapevolezza dell’Hic et Nunc, di idilliaco equilibrio dell’io col presente e passato. Per non parlare del tentativo di afferrare l’etereità, la simbiosi con l’atmosfera, tramite uno sforzo di contemplazione impensabile con i ritmi abituali che ci siamo imposti.

L’uomo ha poi inventato la fotografia, a suo dire comune per fermare il tempo, conservare i ricordi, avere sotto controllo i dettagli.

Una tendenza frequente nel guardare le immagini fotografiche è quella di sforzarsi di trovarci qualcosa per collocarle in un contesto che racconti e al tempo stesso informi in modo oggettivo. Trovare qualcosa che indichi luogo e tempo, cosa e perché.

Insomma si pretende che l’immagine sia un libro aperto, un testo di studio con tanto di parti evidenziate per un facile ripasso, un veloce apprendimento. Questa concezione di fruizione famelica tradisce lo spirito dell’immagine fotografica. lo sa bene questo e lo prende in considerazione il Nostro, nella sua ricerca su tempo ed equilibrio. Il valore di una fotografia è anche in base a quello che non c’è nell’immagine, oppure che sta per entrarne o uscirne. Elementi, persone, e anche il tempo. Come si ferma il tempo? 

Molti direbbero con un click decisivo, un attimo fuggente volto ad immortalare. Bene, ma non benissimo, mi verrebbe da dire. Un po’ scolastico più che altro. 

E se il tempo si fermasse tramite sé stesso, e quindi con la sua eliminazione, o atemporalità? 

L’essere atemporale, ottenuto grazie alla gestione sapiente dei toni del grigio, nella fattispecie del cielo, nella distribuzione dei volumi dei corpi e delle masse, vettorializzati consapevolmente con la finalità di creare un mood misterioso e una particolare finestra che permetta una vista esclusiva sull’universo dell’affezione. E’ nell’essere atemporale che proviamo il continuo risveglio spirituale in funzione di un porsi come chi vuole cancellare e dimenticare l’abitudine.

Nel parlare di quello che per me è un mostro sacro della fotografia italiana, sento di atteggiarmi con una certa deferenza. 

Cesare Ricci, autore romagnolo nato a San Mauro Pascoli nel 1944, che da anni vive a Savignano sul Rubicone (FC). Per prima cosa tramite la fotografia ci restituisce la sua visione del mondo, tramite la quale comprendiamo la sua personalità. Il rapporto con l’umanità, il paesaggio che la circonda e con sé stesso, i suoi dubbi, le sue speranze, il suo senso d’ equilibrio che cerca di esternare con una squisita onestà intellettuale e contemporaneamente, di inseguire grazie all’amore per l’esistenza.

Queste concezioni, insieme alla volontà di perseguire l’obiettivo della bellezza, sono la costante della sua espressività che diacronicamente ha origine dal lavoro di Robert Adams e Paul Den Hollader ma ne è una sorta di prosecuzione e innovazione.

Come ha scritto Saul Bellow, e di cui fa tesoro intenzionalmente l’autore, c’è stato un tempo in cui la gente aveva l’abitudine di rivolgersi di frequente a sè stessa, e non si vergognava di registrare le proprie transizioni.

Ricci non ha paura, non si vergogna di scoprire quanto gli accade dentro, non vuole perdersi nulla di se stesso, di quanto gli accade dentro, vuole capire le sue metamorfosi interiori, i cambi di equilibrio, le virate dell’anima, come un velista nella regata della propria coscienza. Questa registrazione è quasi inderogabile per Ricci, e non può prescindere dal mezzo fotografico, che periodicamente serve quale computo per carpire e riconoscere le evoluzioni dell’ego. L’aveva detto Moholy-Nagy, quando con sicurezza affermava allora che l’illetterato del futuro non sarebbe stato colui che non sapeva scrivere, ma l’incapace di fotografare. Ma ancora più efficace è Molzhan, che sosteneva quanto l’immagine fotografica sarebbe stata un’ arma efficace contro la meccanizzazione dello spirito.

Come ci ha ricordato Fabio Volo, vivere è l’arte di diventare ciò che sei già. Ricci ne è cosciente e di conseguenza il suo approccio al mondo è all’insegna di una dinamicità interiore volta a scolpire l’identità man mano che passano gli anni. Questo passaggio potrebbe essere sicuramente un buon metro per il successo personale, nel senso che se tramite un’autorialità parallela all’eventuale atto del comunicare, si riesce a ben puntualizzare il proprio stare al mondo e le sue logiche, la fotografia ha anche una funzione squisitamente terapeutica ed energizzante.

 

Le sue sono immagini in bilico, funamboliche peregrinazioni sul detto e non detto, la ricerca di un equilibrio tra necessità e desiderio. Testuali parole dell’autore nella presentazione di una sua personale del 2018.

Sono la rottura di un Dis-equilibrio, per trovarne uno nuovo, eGo-sostenibile. 

 

Ritornando momentaneamente a quell’Idea di troppa informazione della fotografia di cui sopra, ecco che un autore alla cui opera sto iniziando ad avvicinarmi è il francese Georges Didi-Huberman, se non altro per il fatto che sostiene un approccio alle immagini che nel mio piccolo ho sempre condiviso. 

Ci mette in guardia da un arrogante e pretenziosa codificazione assoluta, anche di tutti i simboli presenti, dalle letture troppo stringenti e dall’ elevare ad una decifrazione e comprensione oggettiva ed universale dell’immagine, limitandone l’assoluto potenziale, e la moltitudine di significati celati negli strati della propria morfologia.

L’intero corpus dello studioso francese è caratterizzato dall’obiettivo di porre in sintonia le competenze e gli oggetti della storia dell’arte con il tempo presente, le sue urgenze, le sue cogenze. Didi-Huberman è molto attratto dall’ indagare nel talento intrinseco delle immagini di interrogare, rivedere e creare risvolti nella storia così da provare a comprendere anche gli intenti politici che hanno vita in essa.

L’immagine non deve essere storicizzata, deve essere libera di agire, provocare una sorta di sintomatologia emozionale, deve essere lasciata libera di mettere in atto i suoi anacronismi. Forse queste sono le parole più adatte a decifrare il grande lavoro di Cesare Ricci.

 

Ne “Gli strumenti del comunicare” Mc Luhan ha definito la fotografia “Un bordello senza i muri”. Una definizione senza dubbio pesante e degna di riflessione. Inevitabilmente si fa riferimento al voyeurismo, elemento ormai noto e sottointeso quando si parla nella pratica di fotografia, ma soprattutto al concetto di apparenza, quindi a quel cosiddetto reale che si mette a nudo, volendo, alla portata di tutti e senza la quale non potrebbe realizzarsi come mondo conoscibile. Parola d’ordine è guardare dunque.

 

A questo proposito Cesare Ricci in relazione al visibile non da nulla per scontato.

 

Le sue fotografie sono l’esaltazione della normalità, il canto corale della semplicità di certi attimi della vita quotidiana, il respiro senza affanno della natura, la presa di coscienza dell’unicità di quanto lo circonda, il mondo diventa epifanico nel suo essere, dopo che l’autore dell’immagine di esso ha trovato la propria dimensione e ruolo, senza ostentare mai nulla che possa essere considerato un ammiccamento, uno sguardo malizioso a qualcosa di esotico. Ci sono le tracce della sua geografia sentimentale fatta di strade, partenze e ritorni. Spesso le sue composizioni, per via dei tagli, rimandano a certi assoli della musica blues, come se fossero delle note nei brani di Buddy Guy o Albert King. Barcollanti, sul punto di cadere come un ubriaco, ma con la forza di ritrovare all’ultimo momento l’equilibrio. Un’ equilibrio inteso come uno status armonico tra il prima, il mentre e il poi.

Sono l’emblema di quel tentativo volto a domare quel senso di contingenza della vita un po’in bilico, precaria. In ciò che prende dal visibile, pur conoscendo l’impossibilità di trattenere il respiro di quegli attimi, cerca di farli somigliare al senso si sé, alle sensazioni che ha costruito e affibbiato al paesaggio, a quei microcosmi nel corso dell’esperienza maturata verso di essi. Sono una raccolta di memorie, metaricordi, concatenazioni di pensieri, appunti per decifrare qualcosa di cui per la natura umana forse non si comprenderà mai l’essenza.

La straordinarietà del suo operato è proprio questa, averci provato per sé stesso, e averne fatto uno stile di vita, tradotto anche in immagini. 

 

 

 

 

Fotografie: Cesare Ricci 

Testo: Marco Guidi

-si ringrazia Marco Vincenzi per il testo sulla personale “Antologia” del 2013- e Giulia Marchi, 2018.

 

© 2021 Diritti riservati su tutti i contenuti a Marco Guidi || contact: email || social: facebookinstagram

CESARE RICCI