CLAUDIO CAPANNA – MATER

Claudio Capanna - MATER

di Marco Guidi

Finalmente, dopo un po’di attesa, mi è arrivato da alcuni giorni questo libro, di cui mi sono sentito di scrivere queste righe:
MATER è il primo libro fotografico pubblicato dal regista e fotografo Claudio Capanna. Classe 1980, Romano di nascita, attualmente Brussellese d’adozione.
Claudio realizza fotografie esclusivamente con metodo analogico e come supporto impiega la pellicola di formato 35mm oppure la Polaroid Spectra. L’aspetto che più di tutti mi ha colpito inizialmente è il fatto di considerare sua moglie Chiara, come la sua più importante musa ispiratrice. Questa concezione è un mantra che si traduce anche in MATER e in generale nel corpus di immagini fotografiche dell’autore.
Il lavoro di Claudio Capanna è per me piacevolmente classificabile in quell’ innovativo frangente del fotografico che potrebbe essere definito come Postpittorico,* il che non ha nulla a che vedere col pittorialismo, in quanto quest’ultimo costituisce una corrente a sè stante, ma per il fatto che , come ha poi indicato in modo brillante Claudio Marra e prima di lui Pierre Bordieau nel 1965, la fotografia per la sua caratteristica di medianità,(La fotografia è l’ ”Art Moyen”) sia in ambito della pratica sociale e altresì in ambito artistico, crea inevitabilmente il reciproco avvicinarsi dei settori, o in altre parole, dei generi. Quindi è il caso di lasciar perdere il concetto di paesaggio, nudo, o ritratto, ma è davvero l’occasione di parlare di categorie concettuali come tempo, memoria, perfino metafisica. Questo grazie all’avvicinamento “settoriale”.
Quindi gli elementi che in gergo comune costituiscono dei generi ben precisi, qui si fondono tra loro dando vita a una sintesi tra potenza e mitologia. Un omaggio ad un potere assoluto e creativo.
Il libro si presenta con una qualità di stampa molto buona, la carta da 135 grammi è piacevole al tatto e offre uno di quei tanti profumi, insieme a quello dell’inchiostro, che rendono il libro un oggetto per cui provare attrazione, oltre ad essere la dimensione di massima completezza di un’operazione fotografica. Ogni dettaglio è curato e assume un significato. La copertina ad esempio, di colore azzurro e tendente al verde acqua, richiama subito l’elemento-origine della vita. Nessun testo è presente all’interno, ma la presentazione la si può trovare sul sito web dell’autore, ovvero l’ottima sinossi del curatore Steve Bisson.
Tuttavia il titolo “Mater”, è già di per sè una dichiarazione d’intenti intorno alla quale ruota ogni fotografia del libro. Il titolo è come il testo dunque, al fine di favorire una sorta di predisposizione alla fruizione delle immagini, che è poi un sentimento. Ovvero l’empatia con la quale ci si dovrebbe atteggiare nello sfogliare le pagine di un lavoro così devoto all’idea del sacro femminino e al concetto esteso e simbolico di maternità. La tendenza a non inserire un testo sia all’inizio sia alla fine, non rappresenta quindi un’ingenua presunzione per la quale le immagini possano parlare da sè, neppure l’ambizione per la quale in fase percettiva un osservatore possa subito captare e capire l’immenso fondamento che c’è dietro al lavoro. Se così fosse non staremmo parlando di fotografia, o in ogni caso, solamente di immagini con un indice di comprensione elementare.
Siamo di fronte a un caso di squisita elaborazione concettuale di secondo ordine. Costruttivismo puro. Elogio della ricerca e dell’archivio.
La capacità dell’autore altro non è che far ruotare le immagini giuste, costellate anche di segni archetipi, intorno ad una parola per cui ognuno, prima ancora delle immagini, ha un’esperienza o una conoscenza opinabile. In altre parole, un qualcosa di forte e sensibile nell’immaginario collettivo.
Dopotutto fotografare è anche dimenticarsi l’oggettività delle cose per parlare effettivamente del mondo.
Lo stupore, l’intensità dello sguardo oltre-misura del fotografo-figlio che con deferenza si pone verso l’ambiente-madre, è una soglia, un varco per dare un senso sia al tempo appena trascorso ad osservare, sia a quei vuoti che suggeriscono un altrove invisibile che solo la sensibilità dell’artista riesce a cogliere tra un momento e un altro.
Jean A. Keim sosteneva che la fotografia è essenzialmente un’informazione di carattere visivo proveniente da un tempo passato. Questo ovviamente a livello oggettivo.
Ma tale informazione va interpretata, va appoggiata a qualcosa su cui far ruotare tutto per dare senso a questo passato, altrimenti l’animo sensibile rischierebbe di perdersi o impazzire, provando quel sentimento per cui Giorgio DeChirico ha trovato la più bella definizione che potesse esserci: Nostalgia dell’Infinito.
Pertanto attraverso il concettuale, la fotografia si pone in un infinito presente, ma soprattutto concreto.
Mater ha come filo conduttore un paesaggio realizzato con delle istantanee dal sapore epico, addirittura lirico, quale oggetto di un certo modo di approcciarsi alla fotografia e che per via di quella medianità di cui si parlava sopra, si fa indice della memoria, intesa quale genere concettuale del fotografico. La memoria di ciascuno nei confronti di una certa essenza naturale, quasi una devozione nei confronti del corpo femminile. Memoria di quei nove mesi di gestazione, che con eleganza e purezza vengono indicati nella prima parte della sequenza e ne rappresentano il fulcro.
Tutto è un rimando alla sacralità dell’essere madre, sia che ci si riferisca alla donna come madre degli uomini, sia alla natura come madre del mondo. C’è una nuova transizione verso il matrismo e di conseguenza emerge un carattere post-cartesiano, con cui si trasmette la volontà di un ritorno ad una Grande Madre in posizione attiva nei confronti dell’umanità e del creato, tramite una giostra di segni che vanno a comporre un inno alla fertilità, rappresentando una magnifica nudità tellurica, o ancora meglio, un Eden da sogno.
L’aspetto attuale e neutrale sotto certi aspetti in questo lavoro è riconoscere qualcosa di sacro, ma senza il condizionamento di nessun elemento religioso.
Tuttavia c’è un elemento, che con la sua costanza rimanda ad una presenza benevola e soprannaturale. La luce.
Che sia in bagliori, fasci o riflessi, non è solo un mezzo che si impressiona su un supporto fotosensibile per la realizzazione delle fotografie analogiche di Capanna, ma è il simbolo che sottolinea il continuo ciclo del venire al mondo e di lasciarlo. Luce che si posa sul mondo, luce che si eclissa da esso.
E’ anche una luce che si accoppia, amoreggia, penetra la Natura, sui cui grava la responsabilità della continuità del mondo, nell’intimità della profondità della terra, con la passione ancestrale e la consapevolezza di essere come un eremita che, tra dolci pulsioni erotiche, custodisce in parte il segreto della vita.
E’ però una luce di fondamentale importanza a livello estetico-formale, ma assume alla fine un ruolo marginale nel concettuale. Infatti la luce è l’uomo. E’ una paternità sconosciuta, di un ideale pre-Sumerico, talvolta amorevole e ispirante, o un aiuto incidentale.
La donna -madre invece è in armonia con la terra e con la vita che porta in grembo, anzi, con lei stessa quale simbolo di linfa vitale, per la quale dalla notte dei tempi si sono susseguiti riti, canti e pitture rupestri. Lei è un dato incontrovertibile.
E’ come se parlassimo di nuova Genesi, dove tutto sembra senza peccato ed ogni cosa è al suo posto, in un idilliaco equilibrio naturale che ha sempre e comunque come fondamento Madre Natura.
E poi rimane il dubbio, quel sano paradosso, uno dei tanti della fotografia, per cui mi chiedo se alla fine di tutto la MATER sia intangibile e quindi ci viene mostrato solo il suo creato, provandone fin da subito nostalgia, o se sia davvero, come ipotizzato finora, il creato stesso.
Tutto questo Claudio Capanna forse vuole farcelo presagire fin dalla copertina, con quel fiume che sembra un enorme e magnifico cordone ombelicale abbandonato, per cui dalla Mater siamo già stati separati, (quasi) pronti al viaggio della bellezza e al tempo stesso della morte al quale siamo chiamati. Come Ecuba che mostra il seno al suo Ettore, prima di lasciarlo e vederlo andare a morire.
Bisognerebbe chiedere il tutto a Claudio, ma sono sicuro che, giustamente, non ci risponderebbe mai, lasciandoci il beneficio del dubbio. Del resto l’ampio spazio bianco della carta che fa da contorno alle immagini fotografiche ormai è segno di un noto lasciapassare, anche di matrice Ghirriana, per l’ambiguità.
In conclusione, MATER si classifica indubbiamente tra una serie di lavori che hanno come obiettivo la rieducazione dello sguardo, e il conseguente nuovo approccio nei confronti dell’universo femminile, in relazione al quale già da troppo tempo l’uomo è affetto da una triste forma di oblio ed ha una maleducazione sessuale non insita ma assuefatta. A questo proposito, seguirà a breve un testo sul lavoro della giovane autrice Sara Punt.
*Inteso come il superamento della divisione in generi proposti-imposti dalla pittura

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