Il Geometra Miope che andava oltre le misure

Pensieri su Luigi Ghirri

Fotografie©EredidiLuigiGhirri

di Marco Guidi

Sono nato nel 1992, un mese e cinque giorni dopo la morte di Luigi Ghirri. 

No, questo non significa nulla, nessun passaggio di consegne, eredità fotografica o cose simili, figuriamoci. Beato chi ci crede magari, ma quelli sono gli imitatori, gli artigiani del manierismo o di una sorta di copia conforme all’originale (?)

Anche se Ghirri ci scherzava per primo, dicendo di essere il fotografo più imitabile, probabilmente non gli importava di essere copiato.

In fondo gli imitatori non danno fastidio, nemmeno ai critici, del resto non si diventa Dante solo facendosi fare plasticamente il naso adunco.

L’importante è il suo lascito, una lezione globale, un testamento che se ben letto permette agli autori volenterosi di trovare la propria strada senza dover per forza giocare a palle di neve con le varie tradizioni iconografiche. Una lezione che si ripresenta di generazione in generazione, ottenendo, grazie anche alle ristampe dell’editore inglese Michael Mack, sempre di più l’elevazione a classico. 

No, l’intreccio di date mi suggerisce solo un motivo in più per prendere esempio nei confronti dell’originalità, nel significato più etimologico del termine,  che il maestro emiliano aveva innanzitutto imposto a se stesso nel gettare il suo sguardo sul mondo, e trarne una lezione, per me stesso,  che possa trascendere perfino il fare fotografia, per assaporare su più fronti quanto mi circonda. Per capire che essere adulto non significa eliminare presagi, e sensazioni fiabesche, e che “Aldilà del mare” è innanzitutto dietro casa. La prima lezione di Ghirri, è stata la prima vera lezione sia di foto che di post-fotografia.

Fotografia intesa come la strada della conoscenza per poter discernere l’identità dell’uomo, delle cose, della vita stessa, dall’immagine di queste, tra processo mentale e raffigurazione. 

E la cosa più facile tanto quanto immediata, se si possiede un poco di quella sensibilità umana che molti sotterrano, è semplicemente tornare a vedere la realtà, ma con un certo grado nella bussola della consapevolezza.

Attenzione però. Non bisogna essere fraintesi, in quanto per evitare di cadere in un luogo comune si rischia di crearne altri. Vanno evitati con Ghirri clichè del tipo “La tecnica annulla l’emozione, l’oggettività rende tutto banale”, o viceversa “Nelle sue immagini ritrovo il fanciullino, la semplicità” e via dicendo. Non c’è mai stata assolutamente un’involuzione di complessità, semmai c’è un ormeggio, un preciso punto di partenza per un’ evoluzione Rousseana, la bontà dell’animo trasporta allo sguardo. 

In nessuna delle fotografie di Ghirri c’è il predominio dell’improvvisazione sulla cultura, non c’è mai stata la canzonetta pop che mettesse in ombra il jazz solo per esaltare l’”Orecchiabilità” di una porzione del visibile.

Concentriamoci sul discorso “chiave” relativo al Vedere.

Si sa, gli impedimenti fisici non hanno mai pregiudicato lo sguardo, quando e soprattutto questo era azione della mente. Niepcè inventò la fotografia che era malato di glaucoma, A Sudek mancava una mano, amputata a seguito delle ferite riportate nella  prima guerra mondiale. Pure il celeberrimo idolo dei fotoamatori, Mc Curry ha un problema alla mano destra  a causa di un incidente avvenuto quando era bambino. Giorgio Monopoli, reporter sulla sedia a rotelle. Anche Kertesz, nell’ultimo periodo della sua vita, costretto a rimanere in casa, realizzò comunque alcune delle sue Polaroid più intime, toccanti e malinconiche.

Nemmeno una condizione violenta e cruda come la cecità ha negato il fare fotografia a qualcuno, Gary Anderson ad esempio.

Il fotografo è un pò come i Triamati, del resto, lo suggeriva Cesare Padovani, quel terzo occhio può essere anche l’unico davvero importante .

Molti dei grandi fotografi avevano quindi dei difetti fisici, chiamiamoli così. Ghirri era miope. Può sembrare comunque paradossale per un fotografo? Beh, non è affatto così.

Nato a Scandiano nel 1943, annata di talenti, classe di Lucio Dalla, che di quell’anno ne fece il suo pezzo più famoso, per i primi diciotto anni della sua vita il suo sguardo si alternò tra casolari di campagna, nella pianura che più di ogni altra al mondo si alterna tra nebbia e sole cocente. Tra lunghe sottane, l’immaginazione di luoghi lontani e i film proiettati l’estate sul muro esterno di casa, in serate piacevolmente stordite dal canto delle cicale e dal profumo dei gelsomini.

Anni difficili, dove il confine con la miseria era labile quanto un’impronta sulla sabbia durante una giornata di vento. Lui stesso fu sfollato nei primissimi anni di vita.

Era un geometra Luigi Ghirri, uno di quelli che alternano la propria giornata tra scartoffie ed estemporanee in cantiere per misurare l’esito dell’attività umana sulla natura, la realizzazione dello spazio che convenzionalmente dovrebbe portare l’accrescimento di un benessere con se stessi e con il circondario.

Non quello di chi, quei vestiti da impiegato se li sentiva cuciti addosso forzatamente.

A Ghirri quelle misure così tecniche, oggettive non andavano giù. 

“Lo sappiamo che è in bagno a leggere Ghirri”, lo rimproveravano superiori e colleghi, quando si estraniava per cercare fuga da quella che era per lui la vera alienazione. 

Un lavoro non corrisposto era il suo.  Immaginava Ghirri,immaginava sempre, forse senza ancora saperlo stava già realizzando le prime fotografie mai stampate, ma che importava, se grazie a lettura e cultura poteva fuggire da un ambiente freddo, rigido e calcolatore, in cui non veniva capito e in cui ancora oggi, chi prova ad aguzzare la vista per vederci meglio, per andare aldilà dell’apparente, viene etichettato come diverso. 

Quando in realtà si cerca solo di fuggire  al 2+2 dell’ ottusità umana, al consumismo che tende a riordinare tutto in uno schema sequenziale composto da sveglia, lavoro,  e resto del tempo trascorso davanti ad una televisione a osservare passivamente “Reclam” (allora si diceva così, almeno stando a mio nonno) di automobili per ritornare in modo più agile e alla moda a quello stesso lavoro attraverso il traffico cittadino.

Proprio tramite quel lavoro però, più precisamente grazie alla strada per andare e tornare, fece le prime fotografie. Alle cose a cui nessuno bada. Sottraendole agli schemi di chi non fa caso mai a niente.

Non ne voleva sapere, non ne voleva più sapere di quella banalità consuetudinaria che mummificava i sensi e l’intelletto, di quell’essere talmente oggettivi da sfiorare la superficialità, come oppiaceo della paura di vivere.

L’uomo che aveva visto nella fotografia della terra scattata dalla Luna, in quella piuma di cielo ungarettiana, così velina, arida,  l’immagine che conteneva tutte le immagini del mondo, non poteva continuare a fare il geometra. Sarebbe stato quantomeno riduttivo. 

Ma notò anche un altro aspetto forse pericoloso per il suo pensiero. Forse quello che scatenò la sua mission. Vedere il mondo dalla Luna poteva essere pericoloso. Questo poteva rimandare ad una perfetta duplicazione, al sentirsi arrivati nel contemplare un plastico di tutto quanto era già stato fatto sulla terra. Tutto archiviato, come progetti, computi, contabilità di un enorme cantiere. Tutto conosciuto. In altre parole, era la concettualizzazione involontaria del Globalismo da parte degli astronauti-fotografi.

A partire dal 1969, Ghirri ci aveva già visto chiaro come il sole dunque, sotto cui non c’è mai niente di antico del resto.

Era ora di cominciare a dire qualcosa.

E allora, beh, doveva dire basta a quella vita, in barba alle bollette e alle vecchie volkswagen con cui girava l’europa “sfinendo” interi 45 giri di Bob Dylan, colonna sonora del suo girovagare.

Si mise a stampare libri di fotografia, con la leggendaria casa editrice “Punto e Virgola”. Poi conoscerà Mussini, che lo presenterà ad Arturo Carlo Quintavalle. In breve non ci mise molto a farsi conoscere per via delle sue idee e delle sue fotografie. Il resto lo sappiamo fin troppo bene, è storia nota.  Da “Kodachrome” a “Viaggio in Italia”. Una ventata di novità all’epoca ad ogni battito di ciglia, ad ogni clangore metallico delle sue fotocamere, prima 35mm (la famosa Canon Ae-1) e poi nel formato 6×7 e Giant Polaroid.

Ma Ghirri appunto era un geometra, quella parte di vita non si può cancellare.

E si sà, la deformazione professionale non ci abbandona mai del tutto.

Il fatto di misurare la terra gli rimase attaccato, anche se forse si trasformò più in un geologo della fotografia. Divenne un misuratore verticale, che andava oltre al visibile.

Oltreoceano erano attivi già da anni i nuovi topografi, formalmente parlando, già ante litteram rispetto a Ghirri, ma lui iniziò così.  Poi da quel modo di inquadrare la cosiddetta realtà che in qualche modo poteva annoiarlo, incominciò a frastagliarla, a sondarla, a praticare quei carotaggi autocommissionati sul paesaggio italiano, il quale ne aveva davvero bisogno in termini di innovazione, dove la trivella era composta da lente, otturatore e pellicola a colori. Ma soprattutto, è già stato detto,  dal suo sguardo, dalla sua volontà di connessione temporale e metafisica del ricordo con l’ambiente, della favola col documento. Poi reinterrava, e l’operazione poteva ricominciare daccapo.

Le sue fotografie erano oneste nella menzogna, coniugava il tempo verbale dello scattare con uno strettissimo presente, nessun noema, nessun “E’stato” bensì hic et nunc, tempi ,e diaframmi. Ogni immagine fotografica quale frutto di un respiro a tempo con la realtà, in sincronia con tutti gli strati del mondo che confluiscono in quel rettangolo. Dove poi reale e immaginario si incontrano a loro volta nel surreale, del quale dice, la radice è già nell’atto del guardare.

Era il geofotografo dell’Aleph, un capocantiere Borgesiano e poetico. La sua poteva essere intesa anche come la ricerca costante del ricordo con la terra, tramite un’affezione che permetteva di fargli provare gli stessi sentimenti in ogni luogo, in tutti i paesaggi del mondo.

Con l’immaginazione si può andare in tutti i mondi possibili, in tutti i ricordi ed epoche della storia. La memoria dell’autore si sposa, come in una meravigliosa coincidenza, con la memoria che offrono i luoghi, nei quali, anche presi singolarmente, si possono concentrare a loro volta tutti i luoghi e tutti gli istanti dell’universo, così come scrive Rodolfo Wilcock in un suo passo dedicato a Borges. La fotografia di Ghirri in fondo, tutto il suo lavoro, così come la poesia di Borges, non è altro che l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto, come detto di quest’ultimo da Claudio Magris.

Per lui lo sguardo doveva insistere, con dolcezza sì, ma anche con la fermezza del geometra che chiede al suo motorista di perforare il terreno con più grinta, per andare oltre quei frammenti rocciosi che sono la barriera, l’ostacolo inteso quale impedimento alla  profondità del nostro sguardo.

A Ghirri questo concetto di sguardo stava particolarmente a cuore, lo si dirà correndo anche il rischio di essere stucchevoli. Notò tra i primi, quale grande intellettuale del fotografico che era, proprio come lo intendeva Rosalind Krauss, la presenza di una specie di dittatura delle immagini. Allora vide come il raggiungimento di un nuovo diritto umano il ribattere a questa dittatura con altre immagini,  diventando il reporter di una guerra civile contro il concetto di ovvio e contro l’ abbacinamento della vista da parte dell’inquisizione capitalista.

Lottava per conservare la nostra capacità di vedere e per mostrare, parole sue, come ci sia sempre nella realtà una zona di mistero, stimolandoci a intravederne l’alone, soprattutto nei luoghi in cui si pensa di sapere tutto.

Da Walker Evans a Ghirri allora, una pacifica lotta per immagini, per vedere con sensibilità il mondo. 

Non solo Walker Evans tra i punti cardine dell’ispirazione Ghirriana però,  ma anche la Luzzara di Zavattini e Paul Strand, un lavoro sfociato in un libro quale uno “Stato di Grazia”.  Tutto a partire dal ridare dignità alle cose. Dall’album di famiglia all’atlante geografico, immagini per restare e altre per andare, ma sempre con il fil rouge del sentimento e dell’enigma come chiave di lettura.

Allora la sua Versailles si può intendere come la creazione della geografia sentimentale , un universo dell’affezione che più umano di così non si può.

La miopia non ha impedito all’uomo a cui affliggeva la vista ma non lo sguardo, di diventare il fotografo senza il quale non sarebbe potuta esistere, o immaginare di esistere, un ‘intera generazione di fotografi, in Italia sicuramente, ma non solo.

Nulla ha potuto la miopia, nemmeno l’appannamento o la leggera sporcizia sugli occhiali, contro il fotografo che ha rivoluzionato in Italia il modo di approcciarsi al paesaggio. Anzi, di concepirlo.

Lo ha fatto in modo geniale, abbinando la filosofia alla musica, la musica alla pittura e alla storia. Un triangolo isoscele come modus operandi.

Angoli, misure, geometra. Alla fine, anche quello che non piace, da cui ci si allontana, poi torna utile.

Così, da impiegato visionario e sognatore, al fotografo che riuscì a sdoganare l’ovvio, con tutto il suo valore intrinseco. 

Fotografare era come respirare, come godere della sensualità della terra. Era l’ora divina, in questo senso Ghirri è stato anche un pò proustiano. “Le cose usuali, come la natura, io le ho maledette, non potendo vincerle. Le ho rivestite della mia anima in immagini intime o splendide” scriveva il grande autore francese in tempi non sospetti. Ghirri in qualche modo ha vinto grazie alle immagini intimi, ai dolci ricordi dietro ai suoi occhi e poi, con la fotografia appunto. Uno straordinario endotico,  che non amava alla fine viaggiare troppo, e per l’appunto, non era un estimatore degli esotismi.”Che bisogno avete della lucente Asia?” Giusto per ritornare a Proust. 

E’stato più un Re Mida del paesaggio, dei non-luoghi, che al suo passaggio diventavano interessanti, dolci sussurri metafisici,  a partire da un sistema di complessità giù introiettato nel medium fotografico, e costituito da un apparato che è un alternarsi tra soglie e trasparenze.

Umile nella sua genialità,le prime volte che appariva il suo viso sulle riviste si stropicciava gli occhi, chiedendosi se fosse veramente lui.

“E pulisciteli allora quegli occhiali una buona volta”, gli gridava spesso la moglie.

Per fortuna , sua e nostra,  non li ha mai puliti del tutto.

Fino a un giorno come tanti, un’ovvia giornata del febbraio 1992

 

© 2021 Diritti riservati su tutti i contenuti a Marco Guidi || contact: email || social: facebookinstagram

Il Geometra Miope che andava oltre le misure