Lettura parallela tra Fotografie di Alessandra Scoppetta e Simona Tombesi
Nb. Per ragioni di Privacy, sono state postate solo tre fotografie indicative, vi invito a visionare i profili social di entrambe le autrici.
di Marco Guidi
Ci sono immagini fotografiche quale dono di nudità, per parafrasare Ginsberg. La nudità come contemplazione. Ma non è facile arrivare a comprendere un concetto cosi ampio e potente.
Il Novecento è il secolo in cui si sono verificati importanti eventi storici che hanno generato radicali mutamenti a livello politico, economico e sociale: è stato il periodo dei due grandi conflitti mondiali, delle crisi economiche post-belliche, ma anche dell’emancipazione femminile, mediante cui è avvenuto un profondo cambiamento della condizione della donna e del suo ruolo all’interno della società. Conseguentemente a ciò, è cambiato anche il suo modo di esibire e nascondere le proprie forme, sono stati abbandonati molti tabù e molti dei pudori che fino a quel momento avevano mortificato il corpo femminile.
Abbandonati, ma non abbattuti. Le consuetudini sono dure a morire.
Il Novecento, inoltre, risulta essere il secolo in cui si sono verificati i maggiori e più repentini cambiamenti relativamente ai canoni di bellezza: è stato osservato che più o meno ogni dieci o quindici anni si è verificata una ‘rivoluzione estetica’, che ha condotto all’affermazione di nuovi modelli di bellezza femminile, di nuove mode e di nuovi stili di vita.
In tale direzione assume rilevanza evidenziare alcuni periodi storici in cui si sono affermati canoni estetici differenti e talvolta opposti per ciò che concerne il binomio magrezza-formosità connesso al corpo femminile. Come verrà esposto in seguito, infatti, la formosità e le rotondità delle donne ottocentesche, sono aspetti che sono stati soppiantati negli anni ’20 dall’ideale di donna magra, androgina, a cui tuttavia si è poi opposto nuovamente come modello l’abbondanza delle forme della donna del periodo fascista.
Nel suo lavoro Nude Photography, 1840–1920, Peter Marshall osserva che: “Nel clima morale prevalente al momento dell’invenzione della fotografia, i nudi accettati ufficialmente erano solamente quelli utilizzati per la produzione di studi pittorici.
Inoltre, a questo proposito, i canoni estetici erano particolarmente rigidi. Eccezion fatta per casi eclatanti come Rubens per quel che concerne le Tre Grazie, o Jenny Saville, solitamente la donna doveva avere fianchi non troppo abbondanti o seni piccoli. (Le veneri paleolitiche erano un lontano ricordo, insomma).
Il resto non era ammesso in un ambito già fin troppo discusso. Vero anche che a cicli decennali, specialmente a partire dalla fine dell’800,come già accennato si è assistito ad un cambiamento anisotropico dei canoni estetici riferiti all’immagine della figura femminile ma mai oltrepassanti una determinata soglia di forma anche relativa ai segni. Soprattutto poi il cambiamento periodico dei canoni è sempre stato per fini commerciali o propagandistici. Il punto è che l’insistenza nella rappresentazione del corpo mediante questi canoni ha raggiunto nel tempo una idiosincrasia non indifferente verso questa ripetizione dell’estetica, non tanto per l’essere arte ma per la sua ripercussione nell’immaginario sociale dell’essere parte di quello schieramento estetico, a discapito di analoghe e al tempo stesso svariate concezioni di bellezza semplicemente, per vari motivi, taciute.
Succede ora che la fotografia si rinnova approdando in una variante di genere, collocandosi tra l’autoritratto e il nudo, per cui in quest’ultimo si osa inserire canoni diversi. Le fotografie di Simona Tombesi e Alessandra Scoppetta sono in questa lunghezza d’onda.
L’arte, in questo caso, nella fattispecie, la fotografia, è lo strumento per la decostruzione di un dispositivo volgare, costituito da maglie fittissime in cui i luoghi comuni alimentati nella vita di tutti i giorni hanno tessuto delle trame impenetrabili, apparentemente, da una visione che propone la bellezza al primo posto, una bellezza però disinteressata, diversamente dal luogo comune che la ostruisce.
È una situazione molto diversa dal cosiddetto fenomeno o movimento del body positive, dove in qualche modo c’è una sorta di ostentazione, la concentrazione interessata al corpo in sé ma cambiando lo stereotipo.
Inutile girare intorno, arrampicarsi sugli specchi nominando metafore di scarso valore, come adolescenti ribelli che cercano non si sa cosa, impostando un circolo vizioso che neghi l’evidenza, quando quest’ultima a livello concettuale o meno, rappresenta l’elemento più importante.
Partiamo da quello che c’è, dalle cose come sono.
Lasciamo stare l’introspezione, la ricerca di sè, la fotografia terapeutica, o quella cosa che in molti definiscono in modo tremendamente retorico e fotoamatoriale come la foto artistica, che non ha nulla in comune con l’arte.
Partiamo dall’evidenza. Ci sono in queste fotografie delle donne con un seno importante, un bel seno.
Potremmo già fermarci qui, perché se queste righe non fossero propense a dire qualcosa in più, una fetta, anche se scarsa nel migliore dei casi, di fruitori, nel bene o nel male sarebbe già appagata così, senza la necessità di pretendere altre spiegazioni o giustificazioni.
Sembra strano, ma andando oltre il “Mi Piace” qualcuno ha mai provato a dire qualcosa su fotografie simili? Qualcosa che non sia un complimento sull’estetica intesa come tacito apprezzamento fisico o su un ipotetico quanto dubbio grado di interpretazione, per non essere diretti su quanto mostrato.
Certo, potete dire che non è cosi, che ci sono prima di tutto i colori (op. Cit. Riccardo Falcinelli, Cromorama), l’ambientazione, l’utilizzo di una luce piacevole o l’impiego di oggetti o abiti della vita quotidiana che nell’insieme restituiscono una piacevolezza appagante.
Si può dire che se il seno salta all’occhio, è colpa di un’interpretazione distorta, di perversione o mera voracità dello sguardo. Di abitudine, maschilista consuetudine.
La società infatti, intesa come quell’insieme di energia umana, un motore in continuo divenire che da un’impronta alle cose, una “forma”, caratterizza elementi offrendone un significato che, spesso distorto o popolare, attraversa il tempo.
Ma queste fotografie, questa belle e valide fotografie ci sono, sono qui stampate o presenti sui social, o negli archivi delle rispettive autrici, e hanno la loro ragion d’essere proprio per sostenere il contrario.
Ovvero la presenza vistosa del seno sia come bellezza innegabile che come possibilità.
Quale possibilità?
Il fine di considerare il corpo sia nella realtà che all’interno dell’immagine fotografica, come un elemento slegato da una concezione di possesso o di esclamazione ipocrita di abbondanza scandalosa, di allusione maliziosa, pornografica o esibizionista, puritana o bigotta misoginia (Che poi se Dio o chi per lui avesse temuto scandali rispetto al suo creato non avrebbe fornito le donne del seno, no?)
Ingordigia di elementi per scarne e vuote conversazioni.
Come? Tramite la bellezza certo, ma sarebbe troppo semplicistico, quindi proviamo ad aggiungere qualcosa a livello metodico, qualcosa che ci accompagna da diverso tempo a livello di teoria e storia della fotografia.
Il seno come possibilità di equiparazione tra gli indici presenti nella fotografia, per poi porre in essere una retrocessione da indice a traccia per un’ipotesi di de-animalizzazione dell’uomo. Un passo indietro da preciso segno con il suo significato populistico su un oggetto post industriale, da forma a informe, slegato dall’eros o viceversa dalla censura.
Riformulare concetti per far sì che la fotografia di nudo rimandi a se stessa.
Io ci ho provato, e, scusate l’espressione, non sono certo un santo o un uomo mosso da ambizioni angeliche, ma queste fotografie non mi trasmettono altro che un senso di profonda bellezza, slegato da ogni bieco impulso.
Qualcosa di surreale a tratti, dove chiedersi il senso è una perdita di tempo, un tempo prezioso da non sottrarre alla contemplazione.
Quanto l’arte ha a che fare con se stessi? In questo caso molto, diversamente dalle situazioni in cui il sedicente artista-operator ha il compito, autoimposto o commissionato, esclusivamente di stupire, senza non solo riuscirci, ma senza appagare e soddisfare se stesso.
Sembra impossibile in questo mondo offuscato dalla più o meno inconscia sessualità consumistica e dalla sensorialita’ riassunta nel tattile e nell’ azione carnale come massima esperienza, ma il seno effettivamente offre una possibilità.
Sembra paradossale, ma così è. Non a caso Max Ernst aveva dichiarato che La nudità della donna è più sapiente degli insegnamenti del filosofo.
Allora il senso più profondo di queste fotografie, che magari sfugge persino dall’intenzione autoriale, che si svincola anche dalla più remota idea per quel che riguarda il loro concepimento, è quello di ritrovare un dialogo con la corporeità umana e i suoi archetipi corporali, slegati da ogni altra idea.
Per l’umano, l’ ”Umano” che manca da troppo.
A proposito di tattile, proprio un “Umano” poi è diventato, tramite una scintilla d’alba sbocciata, lentamente e bellissima, una mattina al largo dei litorali della mente geniale di Philiph Roth, un seno.
Nell’omonimo racconto di Roth, il professor David Kepesh, trentotto anni, si ritrova metamorfizzato in un’enorme seno femminile da settanta chili. Egli si ritrova imprigionato in una gabbia di staticità, occasione per intraprendere un percorso volto alla conoscenza di sè, tramite angoscia, ansia e un labile confine tra pazzia e realtà che egli stesso vorrebbe scavalcare, propenso più a considerarsi pazzo, come chi , del resto, pensa non si possa dividere la sessualità dal seno, in cui il tatto è l’unica cosa che possa gratificare il Kepesh, ora non vedente tra l’altro, nella sua nuova forma, un tattile che si rivela più mentale che fisico, date le circostanze, ed è anche l’unico aspetto di “Nuova fisicità” tramite i sensi che gli restano, con cui può interagire, specialmente con la fidanzata Claire, gettando le fondamenta per una sorta di suo nuovo metodo percettivo.
E’possibile che Kepesh, nella consapevole fantasia di Roth, si sia trasformato in un seno come se la sua nuova forma fosse l’insieme carnale di tutte le sinfonie inconsce regresse? Che i settanta chili di ghiandola mammaria fossero il peso di un percorso erotico indicibile che accompagna l’uomo fin dalla nascita? Tutto è possibile e la fotografia non è altro che una metamorfosi di un referente che si fa traccia particolare dalla quale scindere ed elaborare tutti i concetti, anche storicizzati, intorno a questa parte di nudità femminile. Non con il tatto in questo caso, ma con lo sguardo, inteso come ultimo approdo di un nuovo e intelligente percorso mentale.
Sarebbe il caso di appendere le scarpe al chiodo, questo sport di puntare e roteare stereotipi sul campo da gioco della“Mammella Hollywoodiana” ha stufato , penso, chiunque si ritenga un minimo intelligente e non succube di un bigottismo impertinente da un lato, e di una dittatura estetica e del desiderio dall’altro.
La fotografia aiuta sempre. La fotografia infatti non è altro che un seno.