JOHN GOSSAGE - "Jack Wilson's Waltz"
di Marco Guidi
“Comandante, il mare si sta facendo grosso”.
“Preparatevi all’onda”.
Salgono i dubbi, ciascuno vacilla, le gambe tremano.
Le convinzioni vengono a meno. Molti non capiscono più dove si trovano. Durante la tempesta ci si chiede quale sia il proprio ruolo.
Dopo aver orzato sulla cresta passa l’onda, poi si poggia. Una, due, infinite volte. In quel tratto ti perdi, aspetti la prossima , non sai fino a quando, e non riesci a stabilizzarti. Come quando non ti torna qualcosa e ti perdi.
Le tempeste possono scoppiare anche dentro di noi, quando passeggiamo dietro casa.
Dimenticarsi chi siamo, anche per un breve momento, ma soprattutto, faticare nel comprendere il luogo che abbiamo intorno, oltre il suo aspetto oggettivo, talvolta abbinato ad una decadenza morale della società. Non riuscire a coglierne più l’atmosfera oltre al visibile. E’un problema che scuote l’animo tanto maggiore è l’intelligenza e la sensibilità di questo.
Intanto il tempo passa. La luce cambia, gli orologi battono inesorabilmente il piede come bluesman annoiati in una catena di montaggio.Per segnare giornate tutte uguali.
Sogno americano, dove? Quale?
Il caos ha il sopravvento, dentro e fuori dal corpo.
Si vorrebbe tornare a gustarsi un caffè e a sentirne l’aroma nel fondo, l’ebbrezza del freddo dell’acqua del mare sulla schiena,rallentare e capire, come il velista che poggia sul cavo dell’ onda.
Nella fretta dunque, nella concitazione, non si ha mai tempo e magari neppure voglia di approfondire, di capire, di provare ad andare oltre. Mentre in quel “Cavo”, quando si rallenta, o si è padroni del proprio equilibrio, oppure ci si perde.
Quando, dopo una vita, ci si prova a guardare intorno, non sempre si capisce quello che c’è davvero, anche se per molti appare scontato.
Ai tempi di “The Americans” i critici dissero che uno come Robert Frank doveva proprio odiarla l’America per pubblicare un libro simile.
A John Gossage invece, l’America e una sua certa rappresentazione, deve proprio annoiare e confondere a morte. Il suo viaggio fotografico diviene allora una terapia per fare chiarezza nella mente, eliminando l’iconografia a partire dalla scelta dei luoghi da attraversare durante il suo pellegrinaggio.
A John Gossage piacerebbe credere nella speranza. Lui tenta di migliorare le cose tramite la fotografia, almeno per quanto riguarda se stesso. Ma il cammino per fare chiarezza, dato il “Non aver compreso la mia casa”, cominciato nel 2003, non riguarda solo la sfera personale, anche quella dell’essere americano.
Dice. “Mi piacerebbe credere a tutto questo, che ci saremmo salvati, ma in Connecticut Avenue ci sono dei graffiti che dicono “Dov’è Lee Harvey Oswald quando abbiamo bisogno di lui?” Tutto ciò che riesco a sentire è il debole eco colpi di pistola provenienti da Wounded Knee”.
Tremendamente difficile. Anzi, avvilente, leggere e rilevare certi contrasti e controversie in una terra che sbandiera valori e libertà. Meglio ripiegare su di sè. Capire per primo come migliorarsi. Un cosa però la fa Gossage, e la fa anche bene.
Ritrae dei giovani, li definisce “Young Artists”, come se si affidasse a loro e li pone sequenzialmente alternati ai contrasti, come se potessero esserne la soluzione o la generazione. Sta a loro scegliere.
Sono pochi i fotografi che hanno saputo dare al loro lavoro anche una declinazione verbale, un tempo specifico all’atto del fotografare. Questi sono andati a riprendere il verbo stesso per oltrepassare quella definizione generica di fotografare, scolasticamente alternata tra uso di tempi e diaframmi, o scrittura di luce. Robert Doisneau è stato definito il fotografo dell’imperfetto. Cartier-Bresson, quello dell’istante decisivo.
John Gossage è il fotografo del passato prossimo, che cerca di analizzare tutto quello che è appena passato, tramite visioni dell’abitudine, perchè non riesce ad assaporare il gusto del già trascorso. Intrinsecamente ne deriva una critica allo scarso valore dato al passare del tempo. Nelle sue fotografie è tangibile un senso di straniamento, la presenza di un errore volutamente inserito, a volte nella composizione, nell’esposizione o nei contrasti, giusto per fare tesoro dell’insegnamento di Cheroux, e farci captare sempre qualcosa di sbagliato. In ogni immagine c’è costantemente un elemento d’astrazione che filtra la realtà e ne distopizza l’essere.
E’un poeta Gossage, ad esempio come quegli altri della Beat Generation che l’hanno preceduto. Un poeta americano. Ma potrebbe essere straniante ed efficace trasportarlo fino in Romagna e “Cortocircuitarlo” insieme ad un altro poeta.
Non della fotografia.
E no, non è Guido Guidi, col quale Gossage ha collaborato e di cui ha curato anche un libro.
E’ Giovanni Pascoli. Anche lui a differenza di altri non cantava di luoghi iconici, ma degli interrogativi che quotidianamente la sua terra gli poneva, e di fatti sconvolgenti.
Ne ho lette molte di poesie del Pascoli e tra quei versi riesco a vedere certe immagini di John Gossage.
Anzi quei versi si potrebbero amalgamare, per creare una poesia che riassuma il discorso del fotografo americano.
Proviamoci.
Che avviene nel mondo?
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
Quel lugubre rombo.
Sono città che parlano tra loro,
Città nell’aria cerula lontane,
Là, genti vanno irrequiete e stanche,
cui falla il tempo, cui l’amore avanza,
per lungi, e l’odio.
So ch’or sembri il paese allor lontano,
lontano, che dal tuo fiorito clivo
io rimirai nel limpido avvenire
Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto
Un sorriso mi sembra ora quel pianto.
Non è che lo scopo e poi il risultato di Jack Wilson’s Waltz.
Questo senso di smarrimento del Nostro è interpretabile anche come la ricerca di una musicalità, la stessa che in preda alla noia, ad una sorta di “Disoccupazione”, ha spinto due tizi come Al Kooper e Mike Bloomfield nel 1968 a chiudersi in studio per lunghi pomeriggi armati di Les Paul squillanti e organi Hammond e realizzare uno degli album più belli e importanti della storia: Supersession. Nella già vasta storia del blues e del rock di allora, sentirono il bisogno di fare chiarezza. Blues e Rock sono come i vasti luoghi delle città americane e degli spazi aperti, che a questa musica hanno dato i natali. Dalle session del ‘68 al peregrinare di Gossage, anch’egli preso dai ritmi prima malinconici e poi elettrizzanti che hanno portato alla realizzazione di Jack Wilson’s Waltz e di altri lavori dello stesso filone concettuale ed editoriale come Should Nature Change e The Nicknames of Citizens.
Il suo valzer. Una danza: ritmica, redentrice, riparatrice, timidamente speranzosa.
Meditatrice e mediatrice fra i luoghi e chi li attraversa. Mediatrice tra dei contrasti e i toni di bianco e nero che li creano. Tra il tempo dato e quello che si vorrebbe vivere.
Perdersi per poi ritrovarsi, nella vastità dell’America a tempo di musica.
Chiedo scusa a John Gossage, probabilmente non vorrebbe nemmeno che si scrivano troppe righe sul suo lavoro, ma i pensieri e i rimandi che mi scatena sono davvero tanti.
La fotografia dei luoghi e dei giovani diventa una domanda, un gigantesco “Perchè” volto ad invadere un’America costellata ormai di stereotipi e di sogni ripetitivi, di sfumature nostalgiche, nella ricerca insistente e struggente di un nesso che riesca a far comprendere ogni frammento paesaggistico e ogni incontro umano della vita quotidiana. (Ogni frammento del quotidiano).
Alla fine, l’ennesima insegna di un diner, un’automobile o un giardino, magari con barbecue, potranno ancora essere una valida risposta.
Ma solo nel caso in cui in ognuno di questi elementi si riesca ad intravedere un progetto diverso da qualunque forma di adagiarsi su un sogno (Americano) ormai legato a vetuste fasi rem.
John Gossage si dimostra un fotografo autorevole nell’illustrare le sue problematiche tramite la fotografia, escludendo in primis la paura di non essere capito.
Che importa, se lui capisce se stesso?
Del resto se fotografare è in un certo senso come navigare, allora salpare ha sempre un senso.
JOHN GOSSAGE – “Jack Wilson’s Waltz”