Selezione di fotografie dall’archivio di Kirill Korobov e commento
di Marco Guidi
“L’aria era gelida, la sensazione generale era di silenzio totale. Interrotto solo dal fruscio saltuario delle fronde di alberi che come sipari erano l’ultimo ostacolo verso la sterminata pianura. Sabbia e mare. La fine del mondo, e l’infinito.
Poi c’erano le onde, che a tratti regolari si sgretolavano sulla spiaggia, scuotendo una coscienza dopo l’altra, di quelle rare anime che sfidando il freddo e la corrente del Mare del Nord si ritrovavano a passeggiare sull’arenile. Sagome, puntini, che vagando sulla sabbia si portavano appresso come un segugio la loro ombra, costituendo involontariamente una sorta di Ready Made dal sapore squisitamente surreale.
Avvicinandosi verso la spiaggia, comparivano torrette, bandierine rosse, la spiaggia pareva uno sterminato parco giochi abbandonato, e la luce gli restituiva un fascino quasi sinistro.
E c’era lui, Kiril, che silenzioso, quasi invisibile, come uno Specnaz, avanzava tra la vegetazione, per prendere quelle istantanee, prelievi essenziali finalizzati a dare un significato a quelle porzioni di visuale che lo circondavano, mentre il tempo passava, inesorabile”.
Kirill Korobov, classe 1984, è un fotografo russo. Non ci conosciamo di persona, solo virtualmente, grazie ad una passione in comune per i pack film della polaroid. Quest’ultima, scoperta da lui per un uso autoriale, non da troppo tempo. Ha all’attivo un discreto background di studi sulla fotografia, e partecipazioni a progetti collettivi e seminari. Parliamo in chat, e mi dice che ha un progetto a lungo termine: “North Community Diary”. Si interessa delle persone, del rapporto che c’è tra di loro e del relativo distacco. Cerca di comprendere, tramite la fotografia dei luoghi, come sia possibile un tale freddo tra la gente. Mi ha confermato, che i temi da lui trattati sono i sentimenti nascosti, le coincidenze e il tempo. Si, proprio il tempo. Allora ho pensato che ci avevo visto giusto.
Per parlare del suo lavoro, la prima cosa che mi viene in mente è una parola, non particolarmente piacevole in sé, specie se intesa in un contesto relativo alla storia della fotografia. La parola è Sudditanza.
La fotografia, schiava della pittura per decenni, per alcuni ancora oggi, in un’infinita battaglia per essere annoverata tra le arti, dove il parametro di valutazione era la complessità non tanto in relazione alla correttezza formale o sintattica, ma esecutiva.
La fotografia, volente o nolente, sempre relegata alla pittura in una situazione di pesante sudditanza. Fino al punto in cui qualcuno ha capito che la sua vera forza era tutto quanto di diverso dalla pittura e che di proprio aveva, la nitidezza, la resa dei dettagli e via dicendo. I Dagherrotipi, il primo esempio, fino al gruppo F/64. Poi ci sono stati i primi segnali che aldilà della pittura, la fotografia, se usata in un certo modo, aveva una potentissima componente Identitaria, ambigua e altresì istantanea, le Carte de Visitè ad esempio. E poi altre battaglie, altre storie, paragoni e lotte tra generi che non vogliamo assolutamente approfondire in questa sede.
Sta di fatto che, senza prendere in considerazione il Pittorialismo e tutto quanto ivi connesso, c’è un tipo di fotografia fatto di rulli, di carte protettive e di minuscoli serbatoi di chimici che esplodono e irradiano tutta una superficie rettangolare pronta a doppiare il mondo come mai era stato fatto prima. Per non parlare delle date di scadenza, ignorate come un’adolescente fa con gli avvertimenti del padre. La Polaroid.
La Polaroid che per sua natura è totalmente disconnessa da ogni diatriba artistica sulla superiorità, diversità o sudditanza dalla pittura. Semplicemente perché al tempo stesso è quella che le si avvicina di più in termini di somiglianza e da essa si allontana per via dell’istantaneità, per la poca complessità almeno esecutiva. Questo per sua natura, per il suo scopo, e quindi non si pone il problema di raggiungerla in termini di risultato finale in senso estetico formale. Qui ci può essere William Turner, direbbe qualcuno, ma al tempo stesso non c’è. Abbiamo Polaroid e luoghi.
Questo Korobov lo comprende e lo mette in atto nel suo lavoro, per parlare del tempo e delle coincidenze. Comprende e concepisce un valore spaziotemporale in seno alla fotografia, come un filtro. Ottenuto dalla libertà d’uso della Polaroid. Come un suo illustre connazionale, Tarkovskij.
Nei Luoghi di Kirill Korobov ci viene mostrato senza nessun ticchettio, senza nessuna fretta, senza nessun orario, il tempo. Il tempo in cui è successo qualcosa ma questo qualcosa non lo sappiamo, è un presagio. Una coincidenza. Tutto è fermo, immobile.
Il tempo viene fotografato e contemporaneamente tramandato, quasi come la vita in certi film o serie tv di fantascienza, dove i corpi vengono congelati e dormono per decenni o addirittura centinaia d’anni. E si risvegliano, come prima, come se il tempo non fosse mai trascorso. Qui invece abbiamo una mutazione.
Korobov, attore e fruitore insieme, congela il paesaggio, ma ce lo tramanda tramite un’idea più vaga, onirica. I luoghi del suo Nord, come fossero una fossilizzazione creata dal tempo, un’impronta tenue delle sue soggettive visioni, la sacralità, l’epicità da un lato e il lirismo dall’altro, del suo paesaggio, che ricompare come una sorta di Sindone improntata.
Realizza istantanee che non sono tanto una fotografia ricordo verso il paesaggio, ma è come se facesse da tramite per il paesaggio, un funzionario della bellezza dei luoghi, per i quali nutre una singolare e sincera affezione. Grazie a Lui il paesaggio impressiona sè stesso, preserva la sua unicità e la consegna all’Oblio. C’è qualcuno che deve ritrovarlo. E’ Kirill stesso che con le sue istantanee lo trova in una sorta di capsule spaziotemporali. Grazie alle pellicole scadute, dal risultato imprevedibile, i luoghi sono su una lunghezza d’onda diversa dal tempo, che gli dona un aspetto stropicciato, colori da fase Rem, e un filtro che ne preserva il sapore del ricordo e il profumo della coincidenza e del Deja-Vue. Il tempo di allora. Degli anni Ottanta, novanta e via dicendo. Di quella data di scadenza.
Ed è nuovamente Korobov a imprigionarlo e poi a ritrovarlo ancora, a ridargli aria, nella dolce oscillazione poetica di chi sta trovando l’equilibrio con e nel paesaggio. Il fascino dell’onirico ora è tangibile, invade la retina dell’osservatore, coniugando il verbo del guardare a un tempo indefinito. Il colore, con la sua indeterminatezza cromatica, e il bianco e nero, che tramite i toni del grigio restituiscono una concezione atemporale, e una leggera grana, a creare un velo d’intimità sul paesaggio, un bouquet nostalgico, a richiamare lezioni Schopenhaueriane sui mali dell’uomo. Ed è consapevole che grazie alle capsule spaziotemporali può conservare la forma e l’aspetto che i luoghi hanno nei suoi sogni.
KIRILL KOROBOV, e le istantanee in capsule spaziotemporali