Fotografie di Leonardo Goni – SELEZIONE
di Marco Guidi
“E la morte non era che un sogno” diceva Nicol Williamson nei panni dello stravagante e irriverente Merlino, riferendosi a Morgana nel film ”Excalibur” del 1981, celebre pellicola diretta da John Boorman.
“Sei solo un sogno, Merlino?” Gli chiederà poi Re Artù dopo vent’anni dalla sua scomparsa dal mondo dei vivi.
“Un sogno per alcuni, un incubo per altri”. L’enigmatica risposta.
Con la prima frase Merlino si riferiva ai tempi andati, in cui viveva in armonia con la foresta e il suo spirito.
Un’età che nel nostro mondo è paragonabile a quella della spensieratezza, dove certi problemi dell’esistenza non vengono ancora contemplati o comunque non scalfiscono minimamente l’essere umano. Questo almeno secondo la concezione cinematografica di Merlino.
Con la seconda frase si riferisce invece proprio a quella sensazione ambivalente e disturbante che prova a esternare Leonardo Goni in questo lavoro dal carattere squisitamente introspettivo. Il tema della morte, a seconda di come lo si ha affrontato o superato, in ogni caso cambia l’uomo per sempre quando ne viene a contatto.
La morte dei propri cari che altera e agita il sonno. Freud diceva che il sogno è la protezione del sonno, ma in questo caso assume un carattere misterioso, disturbante, che va a scandagliare l’inconscio. Se per alcuni sognare i propri cari è un’occasione per sentirsi rincuorati, nel caso del Nostro è l ‘ “Incubo per altri” che cita appunto il mago del ciclo arturiano.
Effettivamente le visioni di Goni sono solo un sogno, ma considerato l’effetto reale e tormentante anche verso il suo corpo, questo significa che occorre agire per trovarne un senso a tutto questo ed un nuovo equilibrio, ma anche un tentativo di avere consapevolezza di quanto sta accadendo.
Per ritrovare la luce occorre scendere nel buio, e dunque sulla base di questa considerazione, Leonardo Goni si applica grazie al medium fotografico.
La fotografia di Leonardo allora rispecchia due concezioni. La prima è quella che per molti è stata motivo di denigrazione e scherno, chiunque ha sorriso in merito a questa idea, ma che ha fatto accostare il nome di Honorè de Balzac alla teoria e alla storia della fotografia.
Le immagini fotografiche, persino quelle che realizziamo in prima persona con l’aiuto del dispositivo, non ci appartengono mai del tutto, ma dal momento in cui vengono, per così dire, concepite materialmente, si avviano verso un percorso pluridirezionale. E’ come se in fin dei conti avessero una vita propria, quasi la capacità di scegliere addirittura. Da qui arriviamo alla teoria dei Simulacri. Per gli Epicurei e per Lucrezio i simulacri sono particelle di materia sottile che si distaccano dalle cose reali e che le replicano in miniatura. I simulacri vengono recepiti dall’apparato sensibile umano consentendo quella percezione che causa poi la produzione onirica. Conoscendo tutto questo, Balzac aveva dunque il terrore dei ritratti fotografici, in particolare di quelli che personaggi come Nadar volevano realizzare anche nei suoi confronti. Dalla stampa fotografica infatti, temeva che a piccole parti, pezzi della sua anima gli venissero gradualmente strappati, causando il suo annullamento.
La seconda concezione invece è simile ed è riferita alla profonda e sincera considerazione di Barthes quando si riferiva alla fotografia di sua madre nel Giardino d’Inverno. Barthes la contemplava e in essa riconosceva il potere di rivedere sua madre nella sua più splendida essenza, ovvero quando era giovane. Tuttavia non ritiene indispensabile mostrarci quella fotografia, perché la ritiene interessante solo per sé.
“La foto è letteralmente un’emanazione del referente”, sostiene infatti Barthes. Grazie a un principio chimico, cioè la sensibilità alla luce degli alogenuri d’argento, la fotografia analogica riesce a “captare e fissare direttamente i raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato”. Così, i raggi luminosi emessi da un soggetto distante nel tempo possono giungere fino a me attraverso l’istantanea fotografica: ecco allora che “il corpo fotografato mi tocca con i suoi propri raggi”.
A differenza dell’autore de “La Camera Chiara”, Goni le mostra le immagini dei suoi genitori. La preoccupazione che queste immagini possano non interessare o essere semplicemente relegate al ruolo di Studium, non è prerogativa del fotografo in questo caso. Ma nemmeno le contempla come faceva Bathes in maniera struggente nelle intime serate autunnali che trascorreva a visionare le fotografie della madre. Gli servono come ulteriore medium, rispetto a quello bizzarro che già rappresenta il fotografico, per svolgere la sua operazione, quasi un rito, come si evince da certi indici che ritroviamo nel suo lavoro, volta a contrastare gli accadimenti onirici di cui ci parla.
Il suo lavoro è stato intitolato “Minotauro”. io ho parlato di Merlino, del resto la mia è un’interpretazione mentre la sua è in fin dei conti una dichiarazione d’intenti. Meglio ancora, è una metafora.
Ma i due personaggi sono anche collegati da un sottile filo comune, se vogliamo. Il Merlino di Goffredo di Monmouth era probabilmente un bardo che divenne pazzo dopo aver visto e vissuto gli orrori della guerra, ovvero in origine si chiamava Myrddin Wylt, che in lingua gallese era la versione nordica e selvaggia rispetto a quella saggia, che era invece Myrddin Emrys. Questa prima figura era inizialmente scollegata dal ciclo arturiano, mentre il Merlino di un altro autore, Robert de Boron, era una creatura che paresse avere origini demoniache, con la capacità di mutare aspetto, anche in forma mostruosa. Di questo evidentemente ne era a conoscenza anche John Boorman.
Ritornando all’ambito mitologico, Pasifae, moglie di Minosse, venne fatta innamorare da Poseidone di un toro bianco, e dalla loro tremenda e perversa unione carnale nacque il Minotauro, il mostro dal corpo di uomo e la testa di toro, posto poi a guardia del labirinto di Cnosso.
Allo stesso tempo il Merlino di Boron era nato dall’unione di un demone ed una vergine.
Inoltre per una sorta di subdola proprietà transitiva, L’innamoramento forzato da Poseidone nei confronti di Pasifae, ricorda il sortilegio che il personaggio più “Soft” o alquanto meno demoniaco, ovvero il Merlino di Monmouth, avrebbe compiuto su Ygrayne per farla giacere con Uther Pendragon, dalla cui unione sarebbe nato Artù. Infine, Merlino chiede in cambio del suo sortilegio, il frutto dell’amore che lui stesso aveva fatto ottenere ad Uther, mentre il Minotauro, esigeva ogni anno sette ragazzi e sette ragazze da Atene, che venivano a lui sacrificati nel labirinto di Cnosso. Leonardo Goni è allora un Artù, strappato da chi amava e offerto a un Merlino-Minotauro, così come potrebbe essere per lo stesso motivo uno di quei ragazzi che al momento si sente sacrificato, senza saperne ancora il motivo, così continua la sua angoscia.
Il mito del Minotauro insegna anche che l’uomo combatte sempre una parte di sè, ovvero quella che si è superata. Questo non significa che però in qualche modo non faccia più parte di noi. La “Matta Bestialità”, termine dantesco, cioè la parte istintiva e animalesca dell’uomo, quella che ci tiene ancorati all’inconsapevolezza, cerca di essere superata da Leonardo Goni tramite la fotografia e tramite l’analisi, che serve come un rimedio terapeutico per trovare un senso ai suoi incubi e a scacciare gli spettri del suo passato, addirittura ri-fotografando in digitale, quindi con la certezza di avere un referente esclusivamente numerico e non materico-spettrale in termini di simulacri volanti e teoria Outside-in, le vecchie immagini analogiche, quindi chimiche e materiali, dei suoi genitori scomparsi.
Con questa operazione sembra dunque voler annullare la presenza spettrale di quei volti che come flash aggressivi gli compaiono in sogno e che tendono a creare angoscia costante nel sonno, dando così il segnale che il punto di vista di Balzac magari non era del tutto una follia. Inoltre questo impiego del digitale, almeno ai fini di questa interpretazione, è un alterativo punto che va a collocarsi nell’ormai annosa questione del dibattito tra i due sistemi.
I sogni di Goni sono una ripetizione ciclica di un modo di affrontare l’inconscio. Oggi sappiamo che il sogno è anche la via regia per accedere alla memoria, dunque anche ai contenuti dell’inconscio, in quanto ci consente una rappresentazione pittografica e simbolopoietica di tracce mnesiche anche implicite significative, averbali e asimboliche.
In altre parole il sogno rappresenta quel link mancante tra le esperienze del nostro passato e l’esperienza presente, in modo particolare per ciò che ne concerne relazioni interiorizzate e vissuti emotivi annessi. E’ una sorta di ingranaggio mancante che completa quegli intermezzi che facciamo fatica a capire, o ai quali diamo poca importanza a livello diurno, che se ben interpretati potrebbero anche essere la chiave per un’autentica ricerca della felicità.
In particolare, sognare defunti si può considerare un aspetto di elaborazione del lutto in cui vengono vissuti e rivissuti sentimenti ed emozioni provati dal sognatore o in cui riemergono situazioni conflittuali, sensi di colpa, episodi del passato, cose lasciate in sospeso collegate alla persona defunta.
Rivedere nei sogni il defunto richiama ciò che il sognatore ha provato per lui, in positivo o in negativo, affinché possa gestirlo e superarlo.
Tutto ciò che nella vita diurna non è stato sufficientemente esplorato per il dolore o per il senso di rispetto dovuto a chi è morto, può emergere nel sogno come una forma di riflessione più profonda, che ha il compito di ricomporre ciò che è stato destabilizzato dalla separazione e ciò che non è stato risolto.
Ritornando però nella fattispecie di sogno dell’autore lughese, le visioni alternate di paesaggi distopici e mossi, ma comunque conosciuti e raffiguranti zone in cui si ripete la vita quotidiana, sono l’incubo che si preannuncia. La quiete prima della tempesta. Sembrano la soglia per varcare un passaggio infernale. Le visioni della Selva Oscura dantesca.
Il fulcro del lavoro del resto è il sussurrare una condizione psicologica riconosciuta. Nella sequenza l’occhio oniricamente disturbato dell’autore che riprende sè stesso, si incrocia e si alterna con quello dello spettro sognato (O per meglio dire indesiderato, non tanto per quello che rappresenta ma per via del fenomeno che l’ha portato via dal mondo e dal suo amore). La figura nuda che si contorce potrebbe quasi essere una performance di body art, nel drammatico tentativo di riappropriarsi della serenità e scacciare una sorta di bolo isterico che lo tiene prigioniero. Troviamo tramite il corpo nudo e grigio tutte le sensazioni del sonno agitato. Tutte quello che precede o antecede l’incubo. Difficoltà nel parlare e chiedere aiuto, corsa goffa e lenta, quindi l’impossibilità di scappare. Il corpo che si contorce, pende, si straccia le vesti, come un dannato prima di entrare nel girone infernale. E’in bilico, urla, chiede pietà, elemosina una sorta di giustizia. Si sente beffato e ha il terrore del buio, ma solo lui ora può accendere un lume.
Per rendere gestibile questa situazione, occorre anche interpretare un ruolo ancor più passivo, ovvero farsi semplici ascoltatori, per cercare, nonostante il dolore e la circostanza fastidiosa, di capire cosa il sogno voglia da noi. Dovremmo innanzitutto rallentare, e provare a comportarci in modo opposto a quanto ci accade in sogno, o per via di questo, durante l’insonnia.
Leonardo Goni adesso è un moderno Teseo che cerca di combattere le sue paure, senza subirne l’effetto, come prima di tutto questo, cercando di ritrovarsi alla fine del labirinto di Cnosso.
E può farcela. Scoprendo che il Minotauro non c’è nemmeno.
Ecco quindi l’esperienza personale del Dottor Knudson con i sogni in cui compare suo padre deceduto da tempo. La sua è una visione ormai serena, frutto di un superamento del sogno disturbato.
“I sogni con defunti sono grandi sogni che trattengono i vostri morti nelle vostre vite e servono precisamente a questo scopo. Ci trascinano fuori dalla nostra precipitosa corsa in avanti. Ci strattonano indietro, lontani dai nostri programmi, libri e lavori.
Io non voglio dimenticare mio padre. Non intendo dire che intendo soffrire ogni giorno o che non accetto l’idea della sua morte. Ma aspetto i sogni in cui mio padre tornerà ancora. Per me superare questa fase non ha senso, la considero una follia”.
Se dunque tra Merlino, mitologia e dottrina dei simulacri, un filo conduttore può essere una sorta di concetto magico riferito sia al sogno sia all’immagine fotografica, per una prima conclusione, quasi morale, mi viene in mente questa frase:
“Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere”.
L’ha detto Richard Harris nei panni di Silente, nella prima pellicola di Harry Potter. Può sembrare paradossale, in quanto Goni vorrebbe vivere una fase onirica tranquilla, non tanto come rifugio, ma come condizione fisiologica necessaria. Ma riprendendo lo stesso personaggio, questa volta nell’ultimo episodio della serie, ora interpretato da Michael Gambon, questi dice in risposta alla domanda del suo giovane allievo:
“Professore, è vero tutto questo? O sta accadendo dentro la mia testa?
“Certo che sta accadendo dentro la tua testa, Harry! Dovrebbe voler dire che non è vero?!”
Perciò, che avesse davvero ragione Balzac e con i ritratti fotografici nel corso degli anni abbiamo davvero giocato male le carte e creato, scusate la volgarità d’altri tempi, dei gran “Casini”?
Del resto non era una considerazione tanto sciocca o insignificante, se è servita anche a Rosalind Krauss come approfondimento saggistico per aprire uno dei suoi volumi sul fotografico.
Quindi lasciando perdere a questo punto la nostalgia noematica di Barthes e riprendendo Foucault in “Dimenticare”, <Tutto questo non è mai esistito se non in quanto simulacro>, parafrasandolo, dopo questo lavoro fotografico, con una nuova coscienza di sé, si potrebbe arrivare a dire al risveglio, non tanto “Era solo un sogno”, tipica frase per un respiro di sollievo, ma:
“Era solo un Simulacro”.