Pietro Massimo Nicoletti – “Ciò che Resta”

Pietro Massimo Nicoletti - "Ciò che Resta"

Fotografie di Pietro Massimo Nicoletti

di Marco Guidi

“La terra improduttiva è marginale. Natura è ciò che resta dopo aver soddisfatto ogni altra

esigenza umana. Il fatto che la terra offra alla nostra società un’arena eccellente per mettere in

scena la propria avidità rivela quale sia la dimensione contemporanea del paesaggio”.

Con queste parole, Lewis Baltz si rassegna al fatto che ormai il paesaggio è esclusivamente frutto

degli interessi umani.

Pietro Massimo Nicoletti per primo prova sulla sua pelle e ci propone poi una sensazione di

sconvolgimento nei luoghi che attraversa, che si dirama su vari aspetti.

Per primo il concetto di consuetudine. Ne consegue una semantica immensa e

variegata. Tra tutto ciò che vi è connesso c’è anche lo sguardo, inteso in questo caso come l’abitudine della vista a giudicare. A partire da sguardo e consuetudine, per quel che riguarda la maggior parte delle persone, si potrebbe sintetizzare una definizione con il concetto di superficialità.

L’abitudine a distinguere, per via di una certa “Educazione”, tra ciò che nel paesaggio sia bello,

elegante oppure squallido. A questo si aggiunge anche la consuetudine dei sentimenti. Bello

coincide con la felicità. Squallido, oppure brutto, coincide con la tristezza. Questo senso comune di estrema sufficienza che orienta in qualche modo la società, è un codice binario che viene

brillantemente superato in questa sequenza di immagini. Nicoletti è consapevole che tale

codice va necessariamente annullato per instaurare una comunicazione di stampo artistico, basata se non altro su una certa complessità, che tende comunque a ridurre quella in scala reale,

dato che fortunatamente la bellezza in questi casi non è quella del senso comune.

Senza neppure avere una teoria precisa su cosa sia paesaggio si tende appunto a definire

qualcosa come squallido con troppa facilità. Del resto la natura non è mai squallida di suo, come

intrinsecamente intendeva suggerire Baltz, ma è solo per via della conclusione dell’attività

umana su di essa, con un lascito di disordine e vuoto, che, sempre per via della scarsa conoscenza del paesaggio, si lancia l’accusa di squallore ad una porzione naturale del visibile con determinate

caratteristiche. Pertanto è squallore ciò che viene accostato fisicamente alla natura, mai essa in

sè.

A proposito di paesaggio, giusto per chiarire che non tutto quello che si lega in qualche modo

a questo termine, è necessariamente una cartolina da sogno. Apriamo una parentesi.

 

Innanzitutto la sfida è quella di identificare che cosa sia il paesaggio prima o dopo la pittura.

Poi, Questo è tutto quello che esiste prima della decisione umana di farne un’immagine da

condividere con altri. Questo vale per tutti i paesaggi. Lo scopo del fotografo o dell’autore su cui

non c’è l’incombenza di un interesse economico o di un vincolo da commissione allora

dovrebbe essere proprio quello di raccontare lo spazio che il potere ha dimenticato, trascurato

o su cui ha perso o terminato gli interessi. Fotografo e paesaggio sarebbero per certi versi una

cosa sola.

Chi guarda rimane sconvolto dal “Paesaggio della realtà” in quanto a differenza di quello

rappresentato su committenza non ha un confine. Quindi vede anche quello che non vorrebbe

vedere. Allora se ogni fotografia di paesaggio, quale genere più antico anche nella storia della

fotografia, è come una frase su di esso, occorre iniziare a diffondere voci diverse da quelle che

strillano solo termini come bellezza, sogno e cartolina.

Chiusa parentesi.

In secondo luogo, è la Natura che viene sconvolta più volte. Dal suo essere resa marginale una

prima volta per via della produzione, all’essere nuovamente relegata al gradino più basso della casta per via della perdita di “Bellezza” di senso comune.

La natura è dunque passiva nel processo che va da produzione a rottamazione.

 

Mai luoghi simili vengono intesi dal giudizio comune quali luoghi naturali sconvolti dal passaggio

umano e di una sua attività produttiva caotica, come un bambino incapace di rimettere a posto

i propri giocattoli alla sera.

 

Nicoletti infine inserisce elementi di leggerezza, sottili poesie che vanno a confermare una terza

strada, una scelta intellettuale, quella di un paesaggio disinteressato, lontano da logiche

commerciali. E’ il paesaggio derivante dalla fotografia e dalle scelte dell’autore in base a luci,

ombre, tagli, composizioni e vie di fuga. C’è il suggerimento di un senso di speranza.

Anche la fotografia sulla base di ormai consolidati luoghi comuni subisce una sorta di

sconvolgimento nei confronti del suo essere disciplina. Denigrata spesso in modo superficiale

come bella o brutta, mentre essa al massimo può essere classificabile genericamente nel suo

corpus di appartenenza come funzionante o meno, oppure come artistica o solo piacente.

Sulla base della serie presentata da Nicoletti dunque si potrebbero gettare le fondamenta per un

ragionamento volto a porre in essere un discernimento tra luogo, natura, sentimento ed estetica.

 

Fonti:

https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/…

M.Borgherini, M.Sicard,Photopaysage, Il Paesaggio inventato dalla fotografia, Quodilbet, 2020

L.Baltz, Note su Park City, pag.34

 

 

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