Fotografie di Sara Punt –
©All Photos by Sara Punt
di Marco Guidi
“…Se ne stava avvolta dalla penombra, all’interno della sua stanza, una mansarda in realtà, all’ultimo piano di un condominio ai margini della città. Poteva intravedere il mare nelle giornate limpide, ma quello che non si sottraeva mai al suo sguardo, era la continua vista della ferrovia fatiscente.
Attendeva il prossimo cliente. Attendeva il prossimo sguardo morboso, il prossimo tocco di mani sconosciute sul corpo. Non ha un nome, tanto in quell’ambiente non ha senso averne uno. Le chiamano tutte amore, tesoro, bambola.
Si. come no.
Attendeva di essere il trofeo di qualcuno, o lo sfogo di qualcun altro. Sisi,del resto non poteva lamentarsi, se lo era scelto lei e bla bla bla, vedrai che farai i soldi e bla bla bla. Tutte le storia che Andrew, il suo amichetto , le rinfacciava ogni volta che provava a dirgli che voleva cambiare vita.
Non cambierai mai vita, dovresti cambiare gli uomini, ma questo è impossibile, lo sai, e loro ti adorano… –
Qualcuno suonò il campanello. Abbandonò i suoi pensieri, per rendersi, come diceva lui, presentabile…”
***
Sicuramente romanzare è sempre un modo per ampliare l’immaginario. Una sorta di ritratto ambientato, preludio di una situazione. In questo caso volontariamente estremizzato, per certi versi.
Iniziò a esserci un frangente all’interno della storia della fotografia in cui questa, dopo un primo tentativo di scrollarsi di dosso l’apostrofare dei critici quale arte di serie B,mezzo esclusivamente scientifico o scimmiottante la pittura, si rese conto che tra i suoi ruoli, a prescindere dallo sfruttamento della nitidezza, c’era anche quello di scuotere le coscienze, così da mettersi allora contro il mondo intero e certe sue logiche. Contro un’estetica predominante che, a dirla in maniera grossolana, aveva origine prevalentemente nello sfruttamento del capitalismo nei confronti di una maggioranza sempliciotta o ignorante. Del resto è noto che è anche la stupidità umana il motore del guadagno nel mondo.
Fu McLuhan a sottolineare dagli spalti della sociologia, quanto, forse ancor più della lettura, la fotografia fosse uno strumento potente per rieducare e riavvicinare la gente alle corrette logiche del mondo, o se non altro alla compresione dei concetti che dovrebberlo muovere a questo mondo, lasciando perdere l’effimero.
La rivalutazione del corpo della donna da oggetto sessuale derivante da una concezione meramente unaria dell’immagine è un tema che in tanti hanno affrontato. Irving Penn ad esempio, penso sia colui che si sia avvicinato di più, nel tentativo di ristabilire un equilibrio di idee tramite il concetto di Informe nei confronti del corpo, all’obiettivo di ritornare, o almeno valorizzare, ad un’estetica propria delle veneri paleolitiche. Non tanto per sottolineare i seni abbondanti o il grasso sulle natiche, sorta di locuzione dalla quale deriva il termine steatopigia, ma per mostrare come in quelle visioni non ci fosse una morbosità, ma una devozione. Quella Mirabilia nei confronti della donna genitrice e delle sue forme. Evidente come l’atto sessuale fosse in secondo piano, forse nemmeno considerato. In Earthly Bodies il grande autore si fece portavoce di una società in parte già sdegnata dall’univocità di certi canoni, per rievocare miti estetici e splendidi modelli di fertilità che ci erano giunti da Willendorf, Lespugne e altre località. Non solo Penn, ma è bene ricordare che tra gli ultimi lavori su questo filone, da parte di autrici ormai affermate, ci sono anche le opere di Olivia Malone o Iringo Demeter, che offrono il loro punto di vista per sottolineare ed elevare la forma femminile alla contemplazione e non ad un’’ambigua erotizzazione.
C’era la volontà di conferire alle parti del corpo, alle rotondità, una propria autonomia organica, tramite l’analisi, la frammentazione, il taglio, i limiti dell’immagine fotografica stessa, la tendenza ad eliminare ogni riferimento alla vita, per dare un significato nuovo, impensabile a quello che fino ad allora aveva assunto il nudo, anche fotografico.
Memorabile è anche il lavoro di Carla Cerati, che ha realizzato un’operazione simile a quella di Penn, anche se con l’esaltazione di una corporatura diversa in termini di forma. Anche Jenny Saville in pittura, per non parlare di Weston, Bill Brandt, Jo Schwab o addirittura di Kertész o Paolo Gioli sotto certi aspetti.
Persino Lee Friedlander ci ha provato a modo suo, ma siamo sempre daccapo.
Al giorno d’oggi non basta più il nobile lavoro di Penn e colleghi, la questione è annosa, al punto di stravolgere, se non l’avesse già fatto, la natura umana. Perlomeno i residui di quella bontà che c’è, per Rousseau, fino ad un attimo prima di incontrare la corruzione del mondo.
Ma ripeto, siamo al giorno d’oggi. Con una contaminazione nei confronti dell’immagine e di conseguenza della mente che sfiora l’anossia dell’intelletto.
C’è l’esigenza di revisionare e cambiare periodicamente, visto che “La maledizione degli uomini è che essi dimenticano”, i canoni non tanto estetici ma quelli dell’approccio visivo e comportamentale. Quei canoni in base ai quali è normale un determinato qualcosa mentre è visto come sorpassato e vecchio o troppo innovativo, quindi fuori luogo, qualcos’altro.
Vero è che dal punto di vista maschile, almeno per un’ampia fetta del genere, tali canoni sono rimasti uguali fin dalla notte dei tempi, del resto è molto facile la tendenza a far ruotare tutto intorno all’amore, seppur di amore non si tratta.
– Elena vedi, per cui tanto reo-tempo si volse, e vedi ’l grande Achille, che con amore al fine combatteo-. La donna è sempre stata vista come una contesa, e tutto quel tempo speso in nell’inseguire questa specie di obiettivo nel corso della storia denota una superficialità preoccupante.
Canoni per cui il corpo è visto come un trofeo, ancor peggio come un diritto. Le tappe della crescita maschile lo confermano. Siamo tutti Agamennone quando adolescenti o adulti arriviamo a pensare di dover meritare una donna, a piangere per un NO più per orgoglio che per amore, e poi tentare di prenderla in ogni modo.
Ha scritto Silvia Avallone recentemente, che le donne nell’Iliade erano piangenti, ubbidienti e disperate. Relegate sullo sfondo come spettri di quello che dovrebbero essere realmente.
Confinate nel retro della storia e nell’ombra della schiavitù. Senza un vero e proprio cambio di passo, in ogni donna è contenuta questa situazione, se non altro per ciò che per molti rappresenta ancora il suo corpo. In ogni situazione di oggi, in ogni stupro, molestia, ogni femminicidio, ogni Revenge-porn, Brisiede, Andromaca ed Ecuba, le possiamo ritrovare senza dubbio.
Quel corpo che crea gelosia, paranoie, e i peggiori capricci, come bambini viziati, come Achille e Agammenone nei confronti di Briseide.
C’è una sorta di involuzione nel concetto di rapporto dell’uomo nei confronti della donna, lo vediamo in tutte le sue sfumature relative alle “Contese brutali” .Dall’ accaparrarsi la femmina più feconda, a quella più rinomata sulla piazza, come se fosse un aspirapolvere dalle migliori prestazioni.
un particolare che sfugge , come un fetch rovesciato che indica il punto in cui l’uomo è tanto più simile ai barbari dai quali vorrebbe discostarsi.
Stiamo parlando comunque di una letteratura scritta da uomini, in un ambito in cui la scrittura si sposava perfettamente con un paternalismo già affermato. Le donne erano lontane anni luce dalle attività e dalla storia, dalla gloria degli uomini, e questi si sfogavano tra loro nella lotta,per ambire ad un corpo, una forma di donna, per poi relegarlo a oggetto usato, crogiolandosi tra gli allori, tra i canti e i poemi che narravano le loro gesta.
-E lei non la libero, no, diceva Agamennone, prima dovrà farsi vecchia, nella mia casa, la ad argo, lontana dalla sua patria, schiava costretta al telaio, costretta a venirmi nel letto-
Quindi in fin dei conti, quelli che vengono considerati come eroi, dopotutto lo sono sempre da un punto di vista maschile.
Le fotografie a corredo di queste righe, tramite la sapiente regia della loro autrice, suggeriscono anche uno stile di vita che ponga il successo slegato dalle mire sessuali. E lo sguardo, dato che ne è il primo atto, deve essere il primo a cambiare.
Priamo è un esempio in questo, l’eccezione che conferma la regola-Non è tua la colpa, hanno colpa gli dei, perchè è dal principio dei tempi che la colpa viene attribuita alle carni che scatenano il desiderio- dice ad Elena. E potrebbe fargli eco Baudelaire.
C’è quindi questa autrice, giovanissima, sincera e con le idee chiare, che con un buon shake tra teoria e pratica, storia della fotografia e cultura visuale, ha rivisitato la fotografia di nudo in vari aspetti, prima di tutto, in quello educativo, o meglio, ri-educativo. Parte ovviamente da questo presupposto, ovvero la mancata visione del corpo come opera d’arte.
I nudi di Sara Punt, esploratrice dell’essenza umana, sembrano voler infatti rieducare lo sguardo verso il corpo nudo tramite una graduale e nuova percezione della forma femminile, grazie ad una traccia quasi grafica, una linea grezza ma nobile, simile ad una certa arte rupestre per un nuovo e alternativo mito della caverna, e ad una distorsione naturale, derivante dalla commistione della luce e dell’oscurità artificiale. E’ Il corpo che affiora alla luce pian piano che diminuisce l’idea di sessualizzazione nei suoi confronti, anzi, si sporge verso di noi non appena percepisce una totale comprensione, abbandonando mano a mano, certi strati standard della società. Diventano quindi, per dirla in termini foucaultiani, un efficace dispositivo.
Sono una sorta di rinnovamento in termini di purezza e di valore culturale dell’essere corpo-donna dopo infiniti secoli di fossilizzazione morbosa dello sguardo.
L’oscurità non è semplicemente un colore, il nero e le sue gradazioni, ma è una condizione. E’ la condizione che racchiude tutta la concezione fin qui detta. Lo conferma anche Noam Elcott, dove in “Artificial Darkness” afferma che non solo la luce è artificiale, ma anche l’ombra e l’oscurità, che se ben gestite riescono a veicolare efficaci significati in ambito di produzione artistica e conseguente ricezione.
Tutto il libro di Sara Punt, dal titolo “BARE”, è dunque, ed ha la funzione, di un grembo da cui nascere nuovamente con una nuova consapevolezza, dimenticando la brutalità ed il desiderio di predominio, di possesso, in altre parole, è uno strumento per rendere labili i confini disegnati dagli ideali patriarcali.
Lo sfondo è dunque una lavagna nera in un’aula di educazione all’immagine e al corpo, quale strumento per indicare parti di nudità come linee tracciate con il gesso, come la più naturale delle attività didattiche a scuola, insieme ad alzare la mano per fare una domanda. Ma è nella sequenza che si vedono mani in contrasto con i corpi, come se fossero le immagini a chiederci a un certo punto se per caso fossimo noi ad aver capito o meno la bellezza del corpo.
Accompagnati da un sottofondo jazz dato dagli intrecci delle linee che va di pari passo con il ritmo della sequenza.
Le immagini sembrano dire, “Questo è un seno, questo è un capezzolo, una gamba, un fondoschiena. Impara a guardarli nella loro bellezza. Senza ricatto, corruzione, morbosità.”
E’stato detto che la storia è uno scandalo, un’oscenità fin dal principio. Questo è risaputo.
Ma restringendo il campo storico “globale” della storia a quello familiare, e dato che parliamo sempre di fotografie e fotografico, nel limite di questo sarebbe utile che in futuro, nel rivedere le foto di famiglia, di sorelle, mamme e nonne (Scianna le definiva come le fotografie veramente realizzate) si venisse a dire, che le scelte di vita raffigurate siano state arbitrarie, quindi con possibilità di scelta, e non legate ad una storia o ad un'”Epicità” scritta dagli uomini.
Sara Punt e la graduale rieducazione dello sguardo