di Marco Guidi
Incomincio così. Da una cosa bella.
Dopo aver visto questo libro, la notte scorsa ho sognato quei luoghi, che non conosco, ma erano accostati in un intreccio onirico alla campagna vicino Rimini. E mi sono svegliato bene, arricchito.
Ciò che deriva da uno scambio di vedute ha permesso la stesura di queste righe. Conosco Samuele Bianchi da qualche anno, solo virtualmente però. Lo scambio reciproco di uno dei nostri lavori ci ha fatto scoprire aspetti e visioni in comune.
Sedimento, prima di tutto inteso come oggetto libro, offre una completezza concettuale, la restituzione tattile e sensoriale che precede un appagamento visivo. E non è poco. Ma non è tutto. Ci si rende conto fin da subito che il concetto di Sedimento che sta alla base di questo progetto è impensabile senza quello di collettività. Perchè è proprio questo senso di collaborazione, di paternità fotografica accantonata, di accordo di buon vicinato e non prevaricazione che trascende la precarietà della definizione di sedimento. Potranno esserci piccole frane, smottamenti, modificazioni degli alvei, bonifiche non volute, nuovi sentieri ma il fondamento poetico e sensibile rimane e rimarrà sottoforma di altre visioni, accostate tra loro in piccole mucchie concettuali di stampo pantareico.
Questi luoghi fotografati, sono il frutto dello sguardo che conferisce a questi il concetto di “Continuo Divenire”. Una somma di visioni simili o diverse, bagagli di vita perennemente connessi tra loro, come il simbolo Underscore sulla tastiera del computer, metafora del collegamento non troppo diretto tra parole, fasi, frasi e periodi della nostra vita.
(a questo propositohttps://marcoguidi-photography.com/_underscore_/)
L’oggetto libro dicevo, la sintassi, la grammatura della carta, ripercuotono nell’immaginario che inevitabilmente si crea a seguito dell’osservazione di queste fotografie e della loro disposizione, quella frase di Henry David Thoureau che Alessandro Trabucco riporta nella prefazione del libro. L’andare nei boschi per non scoprire in punto di morte, che non avevo vissuto. Ed è proprio lo sguardo profondo, intenso e quasi disperato a volte, come il tatto del bastone del cieco, che fa a schiaffi con l’apparente normalità della vita di tutti i giorni, che ci permette di non essere in punto di morte, ma in continuo divenire col respiro dei luoghi che più o meno ci appartengono. I fotografi allora riportano la loro esperienza condivisa e sensoriale. Ci riportano atmosfere che non possiamo odorare, come scriveva Walt Whitman, un grande attraversatore e respiratore di luoghi, ma solo presagire grazie alle scelte compiute nel e per il libro, ma di conseguenza possiamo aprire noi stessi sull’esempio di questa operazione per odorare l’essenza di quello che ci si presenta intorno .Un operazione complessa, concettuale e poetica che sembra voler dire alla fine una cosa su tutte, riprendendo un verso di Whitman: Qualcuno ha mai pensato alla fortuna d’esser nato? Ma soprattutto, di rinascere ogni giorno . E quale potrebbe essere una forma di rinascita se non lo sguardo che si pulisce e si rinnova?
Le immagini fotografiche contenute In Sedimento risvegliano una condizione psicologica tipica dell’uomo sensibile, l’essere abituato per via di un carattere più particolare rispetto ad altri, a farsi domande, a riflettere più nel profondo sugli aspetti del visibile, del reale, del quale la fotografia è un ambiguo corollario. L’uomo sensibile, incarnato dal fotografo nella coniugazione più profonda della locuzione avverbiale “Creare Immagini” non si da pace su certi aspetti confinati da molti al gradino più basso nella scala di ciò che è socialmente rilevante. Anzi, li eleva quasi al grado di dogma. I tre autori che hanno preso parte a questo progetto, Simona Lunatici, Simone Letari e Samuele Bianchi, hanno colto la delicatezza dell’atto di attraversare i luoghi, ne hanno fatto quasi una ragione per andare oltre l’effimera questione estetica o a tratti edonistica che vincola la ricerca della maggior parte degli esseri umani, per concentrarsi su una parola strana, se discostata dalla sua etimologia: Assaporare.
“Uno dei punti cardine di quel fenomeno che negli ultimi circa tredici anni viene definito Postfotografia, è l’impiego di mezzi che fanno capo all’immagine fotografica ma trascendono al tempo stesso il fare fotografia in maniera più diretta e tradizionale. Questo per svariati motivi, se non altro quello di fronteggiare la presenza di una bulimia di immagini. Ecco, un esempio è proprio l’utilizzo di immagini prese dal web, con Google Instant Street per dirne una. Le immagini di questo programma sono la ricognizione di qualunque luogo in base a indicazioni di latitudine e longitudine, precisamente, dove le automobili dotate di telecamere riescono ad arrivare. In sedimento c’è l’intenzione di andare con il corpo e con lo sguardo dove non tutto e tutti possono o vogliono arrivare. Ecco allora che quasi contrariamente alla post fotografia si verifica più correttamente un fenomeno quale la Post-topografia, con luoghi indefiniti, spesso la medesima versione dello stesso luogo, ma con una prerogativa antinflazionistica notevole e profonda”.
Lunatici, Letari e Bianchi sono allora dei Post-Topografi che incuranti di quello che per alcuni è il concetto di ripetizione, vanno su quei luoghi che sono incontaminati dal verbo “Fare”, per loro teatri dell’affezione, divenuti poi dolce e fragile architettura sedimentale tra le pagine del libro, grazie anche alla posizione delle fotografie all’interno dello spazio bianco per sottolineare appunto quella condizione psicologica di ricerca sensibile con lo sguardo. Ricerca attraverso il tempo, lo spazio, i ricordi. I luoghi diventano contesto e pretesto per agire su di sè, su di noi, come la squisita operazione concettuale che ci viene proposta periodicamente nella sequenza, quando si raggiunge l’apice e poi si ripiomba nello smottamento e nella complessità che da il via al continuo divenire, alla ricerca. Contesto quale spazio fisico per sondare le visioni più o meno reali della memoria, pretesto per lasciar maturare un nuovo rapporto con la natura. Essere noi stessi il supporto per l’agire di quella luce , quella “Pencil” di cui ci aveva parlato Talbot nel primo libro fotografico della storia. L’agire della luce, lo spiega benissimo l’ultimo periodo della sinossi di questo lavoro: Può bastare un movimento per sconvolgere il tutto ed originare nuove forme di sedimento, pur sempre composto dalla stessa materia. Un processo in divenire, che può momentaneamente arrestarsi, ma non trovare mai fine, se mosso da una forza.